Umberto Poli, meglio conosciuto come Umberto Saba, scomparso esattamente sessant’anni fa all’età di settantaquattro anni, è stato per molto tempo considerato, a torto, un poeta minore e quasi immeritevole di studio e d’attenzione.
Fu, al contrario, uno straordinario interprete della poetica italiana e mitteleuropea del Ventesimo secolo, con la sua scrupolosa osservazione della vita quotidiana, il suo fascino malinconico, i suoi tormenti, il suo essere quasi un caso psicanalitico e il suo respirare, da vicino, la caducità dell’esistenza e la fragilità delle sue emozioni.
I protagonisti sabiani sono, non a caso, gli sconfitti, gli ultimi, i derelitti nonché, ovviamente, la sua amata Trieste, la terra d’elezione dei suoi componimenti e la culla delle sue storie, delle sue passioni, del lento e drammatico svolgersi di una vita che conobbe molti momenti di sofferenza e ben poche gioie, innumerevoli crisi interiori e qualche meritato, benché effimero, riconoscimento.
Saba ha cantato la “scontrosa grazia” di una terra contesa, dello sfondo della Prima guerra mondiale, della patria dell’irredentismo e di una visione politica improntata alla costante lotta contro l’invasore, l’oppressore, il despota straniero che, in fondo, era il vero male atavico di un universo con molta storia e poca identità; o, per meglio dire, con un’identità difficile, frammentata e priva dello slancio necessario per rivendicare una chiara appartenenza nazionale.
“Il Canzoniere” di Saba costituisce, a tal proposito, la quintessenza del suo racconto esistenziale: un’opera in cui ogni verso, ogni riflessione, ogni pagina scandisce sostanzialmente i suoi silenzi, i suoi tormenti d’anima, il suo sentirsi un apolide e il suo non avere né riuscire a rivendicare una precisa collocazione politica.
Oggi, forse, Saba sarebbe capito; oggi, forse, la sua post-ideologia incapace di schierarsi da una parte o dall’altra verrebbe considerata alla stregua di una virtù; oggi magari verrebbe persino candidato al Nobel. All’epoca no, non venne apprezzato, non piacque granché alla critica, venne a malapena sopportato e infine cadde nell’oblio per alcuni decenni, prima che la potenza carsica del suo agire poetico sbocciasse a nuova vita in questa stagione di contrapposizioni feroci e indistinte, volgari ma, al contempo, incapaci di suscitare un minimo di speranza.
Saba fu il poeta dell’addio, della nostalgia ricorrente, del perdersi, del lasciarsi andare, fu il poeta che predicava la sostanziale inutilità della lotta e, al tempo stesso, il suo bisogno inestinguibile; insomma, fu un poeta contraddittorio, aspro, selvaggio, inafferrabile, difficile da ascrivere a qualsivoglia categoria, pressoché impossibile da etichettare e per questo geniale, unico nel suo genere e finalmente compreso nella sua incomprensibile grandezza.