È ben noto come papa Francesco ritenga la realtà superiore alle idee. Difficilmente il suo approccio può essere definito “ideologico”. Sono ideologici invece i vasti e variegati mondi che a lui si oppongono, o che lo avversano? Per riflettere può essere utile soffermarsi su alcune parole che, usate ormai quotidianamente, sembrano saper costruire un ordine ideologico, divisivo, ma capace di plasmare quella che ai nostri occhi finisce con l’apparire la realtà.
Partirei dall’uso, ormai comune, della parola “moderato” in campo religioso. Un musulmano moderato non uccide, rispetta l’altro, lo accetta, crede nel dialogo. E un cristiano? Anche un cristiano “moderato” non uccide, rispetta l’altro, crede nel dialogo? No, questo è un “vero cristiano”. E allora non si potrebbe definire “vero musulmano” il musulmano che non uccide, che rispetta l’altro, che crede nel dialogo? No; forse perché dietro c’è un ‘ideologia, si vuole in qualche caso cioè diffondere l’idea che l’islam sia intrinsecamente violento, lo sia nel suo Dna. Così il “musulmano moderato” diviene nel nostro immaginario, nel nostro non detto, un musulmano “moderatamente musulmano”. Era tale anche ai tempi in cui accoglieva gli ebrei espulsi dalla “cattolicissima Spagna”? E quei “cattolicissimi” allora non erano “veri cristiani”? Si dirà, “roba vecchia…”. Ok. E il vescovo russo che in base a una foto di Noah Browning della Reuters ha benedetto i cacciabombardieri che partivano alla volta della Siria?
Il problema, sia chiaro, non è costui, ancor meno fare equazioni, ma capire meglio perché un accademico stimato in tutto il mondo, definito il più autorevole esponente dell’illuminismo arabo, Sadiq Jalal al-Azm, abbia affermato che l’islam «coerente e statico» è incompatibile, come ogni altra visione religiosa coerente e statica, con la democrazia e la libertà. Ma, ha detto al Azm, un islam «fede viva, dinamica», come quello che si è adattato al nomadismo, alle società industriali, al feudalesimo agrario, al centralismo burocratico, al mercantilismo, perché sarebbe incompatibile? Dipenderà dai musulmani, non dall’islam. E nel pensiero del grande al-Azm questa visione di fede “viva”, “dinamica”, sembra molto vicina ai “tempi che cambiano” e ai cristiani che, “in fedeltà al Vangelo”, cambiano con essi, di cui ha parlato Jorge Mario Bergoglio. O sarebbe preferibile se seguitassero a vestire come ci si vestiva ai tempi di Gesù e degli Apostoli?
C’è dunque un’ideologia dietro l’uso ormai comune del termine “moderato” applicato all’islam? Si vuole affermare che una religione è per sua natura violenta, lo è nel suo Dna? I nomi più o meno illustri per opporsi a questa teoria sono molti, fermiamoci a riflettere su quello non conosciuto del musulmano che, a rischio della propria incolumità, ha tratto in salvo padre Jacques Murad, sequestrato dall’Isis.
Voltiamo pagina e passiamo alla parola “vita” e all’espressione, bellissima, “difendere la vita”. Espressione che vale davanti al tragico caso-limite di Charlie Gard, il bambino britannico di cui si è discusso sovente senza sapere. Ma vale anche per i tantissimi migranti che rischiano di morire annegati nel Mediterraneo o altrove questo “difendere la vita”? Esiste tra i supporter della “difesa della vita” qualcuno che quando si parla di migranti osserva che a loro non si può interrompere la somministrazione di acqua (potabile) e pane? Se la bioetica si appella sovente al rapporto tra leggi ed etica, non sono leggi etiche le convenzioni internazionali che obbligano al soccorso in mare di chi sia in pericolo? A mente dall’art. 98.1 della UNCLOS (United Nations Convention on the Low of the Life at Sea, Montego Bay, 1982, e del Cap. V, Reg. 33(1) della SOLAS (Safety of Life at Sea, Londra, 1974), il comandante di una nave ha l’obbligo di prestare soccorso a chiunque sia trovato in mare in pericolo di vita ed è, altresì, tenuto a procedere – con tutta rapidità – all’assistenza di persone in pericolo in mare, di cui abbia avuto informazione. Eppure il movimento per la difesa della vita su questo a mio parere dice poco.
Soffermiamoci un momento sul recente decalogo Minniti: si può soccorrere solo con ispettori di polizia a bordo. E questo, si dice, perché si intende inasprire la “guerra ai trafficanti”. Davvero? E allora non era possibile, visto che i partner europei concorderanno sulla guerra agli scafisti, immaginare un’estensione dei corridoi umanitari, in modo da creare in aree di transito dei “centri di registrazione, identificazione e trasferimento legale in Europa” di chi ha diritto all’asilo? Non rapporterebbe legge ed etica? In questo modo non si offrirebbe un’alternativa, lenta, difficoltosa, ma un’alternativa ai trafficanti, mettendo quindi in condizione di non legalità chi tentasse strade diverse? E pensando all’Italia; così facendo sarebbe rimasta la meta di tutti gli asilanti? Francia, Germania e molti altri si sarebbero trovati a poter dimostrare il loro attaccamento ai principi che tanto li fanno, giustamente, inorgoglire della loro storia. Lo stesso presidente Macron, così fiero della sua passione per Paul Ricoeur, avrebbe potuto passare dalle interviste ai fatti. Si tratta, in fin dei conti, di difendere il diritto alla vita, o no? I timori ventilati da Amnesty non potevano essere sollevati anche da numerosi comitati per la difesa della vita?
Il tema, stando al nesso indispensabile tra lessico e realtà, mi sembra molto importante e quindi detto dei migranti torniamo al caso drammatico del piccolo Charlie Gard. Alcuni hanno quasi espressamente “criticato” papa Francesco al riguardo. Ad esempio su La Bussola Quotidiana è stato scritto: «E infine non si può non provare sgomento per l’assenza ingiustificata della Chiesa, anzi dei suoi pastori, fatte salve alcune, rare, eccezioni. Ancora una volta, davanti a un popolo che si è mobilitato anzitutto con la preghiera, ha fatto da contraltare il silenzio di vescovi e sacerdoti, a cominciare da quelli più vicini ai Gard. In tanti mesi solo qualche scarno comunicato, peraltro all’insegna del cerchiobottismo, qualche parola di generico sostegno ai genitori di Charlie, un paio di tweet. Nessun giudizio chiaro per sostenere la battaglia per la vita di Chris e Connie, nessun segno concreto di vicinanza, guai a porre gesti che avrebbero potuto essere interpretati come sfida al Potere. Silenzio. Dove erano quelli che si riempiono sempre la bocca di parole come “accompagnamento”? E quelli che urlano contro la “cultura dello scarto” hanno perso la voce?». Difficile non scorgere in queste parole un riferimento a papa Francesco.
Ricordo che, anni fa, monsignor Rino Fisichella fu duramente biasimato da molti per essersi distinto dalla linea più intransigente del mondo pro-life quando si verificò il caso tremendo e unico della bimba di Recife: lei, piccolissima, rimase incinta del padre stupratore. I medici ritennero di farla abortire. Era davvero uno scandalo, come sostenne il vescovo di Recife, ricorrendo alla scomunica? Monsignor Fisichella in difesa della bambina violentata scrisse un articolo davvero toccante sull’Osservatore Romano. Ma, dopo un acceso dibattito che vide molti protagonisti, fu, sebbene non ruvidamente, richiamato.
Che questa polemica possa essere stata ideologica lo si evince anche da alcune polemiche contro l’ospedale Gosh nel caso del piccolo Charlie Gard. Charlie era affetto dalla nascita da malattia rarissima, la “RRMB deficiency”, che colpisce il relativo gene. L’ospedale Gosh ha tentato tutto il possibile, pensando anche alla terapia del professore americano Michio Hirano, che riguarda però altra sindrome, che affligge il gene TK2 e quindi i soli muscoli, non il cervello e altri organi. Come ha scritto Giovanni Drogo su Nextquotidiano, “il professor Hirano già a gennaio era stato invitato dal Gosh a visitare Charlie. Ma questo invito non è stato accettato fino al 18 luglio scorso. Anche durante le udienze – cui Hirano ha preso parte in videoconferenza- il medico ha ammesso di non aver mai visitato il paziente ma di aver solo letto la cartella clinica. E anche allora disse che la sua terapia non poteva migliorare la condizione di Charlie.” A cosa poteva servire alimentare le speranze, umanissime, nobilissime e comprensibilissime, dei genitori di Charlie? Escludo che qualcuno abbia pensato alla sperimentazione sul bimbo di terapie che sin qui non sono state sperimentate su cavie. Si pensava allora a difendere “un’idea”? Si ha paura di una società matura che davanti a simili drammi sappia distinguere tra gli eterni corni, eutanasia e accanimento terapeutico? Supremo è l’interesse di una persona o di un’idea?
Ed eccoci all’ultima parola sulla quale vorrei richiamare l’attenzione: “preghiera”. Il padre generale dei gesuiti, Arturo Sosa, ha ritenuto di andare in visita in un tempio buddista cambogiano, e lì, con i suoi ospiti ha pregato come loro pregano e come tutti in quel paese pregano. Ha sbagliato? Forse una religione può vivere fuori dal contesto culturale, educativo? È stato il suo un cedimento sincretista? Forse sì, come lo sarebbe stato per alcuni quello di Giovanni Paolo II, che propose una preghiera per la pace all’abate ortodosso del monastero di Santa Caterina, nel Sinai, monastero che sorge lì dove secondo la Bibbia Mosè ricevette i dieci comandamenti. “Sincretismo!” mi disse in quella circostanza l’abate, tanto che quando papa Giovanni Paolo II si raccolse in preghiera lui si allontanò, “perché non siamo in unità”, spiegò. Attento anche alle idee, per me alle paure di questo abate, papa Giovanni Paolo II, arrivando in Egitto, disse: “La mia visita al Monastero di Santa Caterina, ai piedi del Monte Sinai, sarà un momento di preghiera intensa per la pace e l’armonia interreligiosa.”
Cosa fa paura? Forse fa paura l’altro? Ma perché la paura è così forte? Padre Antonio Spadaro e Marcelo Figueroa hanno scritto nel loro recente saggio sull’America e il fondamentalismo, tanto cattolico che evangelicale: “su quale sentimento fa leva la tentazione suadente di un’alleanza tra politica e fondamentalismo religioso? Sulla paura della frattura dell’ordine costituito e sul timore del caos.” Dunque si potrebbe dire che siamo chiamati a rispondere al caos, o alla percezione di caos, anche con le parole, che possono essere parte di muri o parte di ponti. Prima di chiudere, pensando al caos, proviamo a pensare alle parole più ricorrenti nella predicazione di papa Francesco: “misericordia”, “cultura dello scarto”, “questa economia uccide”, “Dio sempre perdona”, per non dire dell’indimenticabile “chi sono io per giudicare” o dell’ancor più forte “quando entro in un carcere sempre mi chiedo perché loro e non io”. Parole che sono in sé ponti umani, culturali e molto altro.
Oggi Bergoglio mi appare preso nell’elaborazione di una nuova teologia, la teologia dei poveri. Da quando ha detto che i poveri sono la carne di Cristo questo tema è divenuto d’attualità. In occasione della Prima giornata mondiale dei poveri papa Francesco infatti ha detto: “Se vogliamo incontrare realmente Cristo, è necessario che ne tocchiamo il corpo in quello piagato dei poveri, come riscontro della comunione sacramentale ricevuta nell’Eucaristia. Il Corpo di Cristo, spezzato nella sacra liturgia, si lascia ritrovare dalla carità condivisa nei volti e nelle persone dei fratelli e delle sorelle più deboli. Sempre attuali risuonano le parole del santo vescovo Crisostomo: «Se volete onorare il corpo di Cristo, non disdegnatelo quando è nudo; non onorate il Cristo eucaristico con paramenti di seta, mentre fuori del tempio trascurate quest’altro Cristo che è afflitto dal freddo e dalla nudità» (Hom. in Matthaeum, 50, 3: PG 58).”
E questa teologia può avere un forte ancoraggio inter-religioso. Se i veri eletti sono gli esclusi di oggi, ma eletti domani, la figura biblica di Ismaele, scartato con sua madre Agar da Abramo per un umano cedimento alla gelosia di Sara, può stabilire un ponte tra i figli odierni di Abramo. Tutto sommato le lacrime di Agar sono le prime lacrime bibliche, e sono lacrime materne, come quelle di Maria. È un piccolissimo esempio di come la teologia dei poveri potrebbe parlare, unire, non dividere.