ThyssenKrupp. Non lasciamo sole Laura e Rosina

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Laura Rodinò e Rosina Platì sono due donne che hanno condiviso un terribile destino e una battaglia lunga nove anni, non ancora finita. Entrambe hanno perso una delle persone più care – Laura un fratello, Rosi un figlio – nel rogo della ThyssenKrupp di Torino il 5 dicembre 2007. Oggi – insieme – devono affrontare l’ennesima ferita. I due manager tedeschi – ritenuti i responsabili, insieme a 4 dirigenti italiani, della morte degli operai Antonio Schivone, Giuseppe Demasi, Angelo Laurino, Roberto Scola, Rosario Rodinò, Rocco Marzo e Bruno Santino – sono ancora liberi, nonostante la condanna definitiva sia arrivata 14 mesi fa. Omicidio colposo plurimo con colpa grave e violazione delle norme di sicurezza: Espenhahn deve scontare 9 anni e 8 mesi, Priegnitz 6 anni e tre mesi, ma – a differenza dei manager italiani entrati in carcere il giorno successivo alla sentenza – non hanno mai fatto un solo giorno di prigione. “Siamo disperati nel vedere che questa tragedia non finisce mai e che questa gente è sempre fuori – dice Rosi Platì, la mamma di Giuseppe Demasi, l’ultimo dei 7 operai della Thyssen a morire dopo 34 giorni di agonia – Loro non hanno pagato nessuna pena. Siamo noi a pagare, ci hanno fatti morire insieme ai nostri cari… Io sono morta a 49 anni insieme a mio figlio. Oggi voglio fare un appello al ministero della Giustizia perché agisca. Espenhahn doveva scontare 10 anni, alla fine ne farà 5 in Germania, ma almeno questi li deve scontare”. Rosi fa riferimento a un accordo bilaterale per il quale un cittadino tedesco condannato in Italia può scontare la detenzione nel suo paese e la durata della pena non può superare il massimo previsto dal codice penale tedesco; 5 anni in caso di omicidio colposo.

Espenhahn era l’amministratore delegato di ThyssenKrupp che – in un documento ritrovato dalla Guardia di Finanza – affermava che Antonio Boccuzzi, l’unico testimone sopravvissuto, “va fermato con azioni legali” perché sostiene in televisione accuse pesanti contro l’azienda. Aveva provato ad addossare la colpa agli operai, per la loro morte. Li aveva accusati di aver provocato l’incidente con la loro distrazione e addirittura con “colpe”, correggendosi poi, parlando di “errori dovuti a circostanze sfavorevoli”. Nello stesso documento aveva poi criticato pesantemente Raffaele Guariniello (il pm di Torino che poi sarebbe riuscito a farli condannare per omicidio volontario, derubricato in omicidio colposo in appello) e l’allora ministro del Lavoro Cesare Damiano, sul quale diceva di non poter fare affidamento perché “schierato dalla parte dei lavoratori”. “E’ incredibile che due personaggi come loro siano ancora in libertà – dice con rabbia Laura Rodinò, sorella di Rosario – mentre i nostri cari sono al cimitero da 10 anni. Alla fine è più tutelato chi ammazza che le persone lese, quelle che nemmeno ci sono più e non si possono difendere”. La condanna per omicidio colposo plurimo con colpa grave fa riferimento a quegli impianti di manutenzione non rinnovati e a quel sistema antincendio non acquistato perché il colosso tedesco aveva deciso di spostare gli impianti da Torino a Terni. “Mio fratello diceva sempre: se scoppia un incendio non si salva nessuno, lo diceva poco prima di quel rogo in cui ha perso la vita coi suoi colleghi”, dice Laura, parlando di una tragedia annunciata. “Gli ultimi tempi Giuseppe lo diceva – aggiunge Rosi –: mamma, prima o poi lì dentro scoppia tutto, ci hanno abbandonati a noi stessi… Giuseppe arrivava a casa coi pantaloni unti d’olio fino al ginocchio… Non c’erano estintori, non c’era più niente lì, non facevano più niente…”.

Si legge tutto, in filigrana, negli occhi di Rosi e di Laura, tutta la pesantezza di questi nove anni. Le abbiamo incontrate in momenti diversi, ma ognuna non faceva che chiedere dell’altra: Chissà cosa farà Laura? Come la starà vivendo Rosi? È come se avessero creato una corrente sotterranea che le unisce, al di là dei luoghi fisici. Quella corrente di due donne che sanno cosa significa sopravvivere a un figlio e dovere andare avanti per l’altra figlia; sopravvivere a un fratello e dover continuare perché, subito dopo, sono nate le sue bambine. Hanno sempre quel dolore in fondo agli occhi, eppure non hanno mai perso la forza di chiedere giustizia. Non lasciamole sole.


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