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Rita Atria. La Memoria Attiva si incarna nelle storie di testimonianza e di r-esistenza

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26 luglio 2017. Viale Amelia, 23. La storia di Rita Atria risuona come melodia, 25 anni dopo quel volo di solitudine. Lei, giovane donna, testimone di giustizia a soli 17 anni, voleva vivere e crescere in “un altro mondo fatto di cose semplici, ma belle… un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di questa o di quella persona”. Le parole di Rita, nel suo viaggio di testimonianza dall’inizio alla fine, rivivono tra noi grazie alla musica e alle letture dal diario di Rita stessa, interpretate dalla voce e dalla chitarra di Stefania Mulé, con brani tratti dal suo spettacolo In viaggio con Rita e Stefania (Noce), con l’accompagnamento del chitarrista Paolo Scatragli, e alla canzone Testimone di giustizia, scritta e interpretata dal musicista Fabrizio Varchetta.

Attraverso un percorso di Memoria Attiva, giorno dopo giorno, si snoda l’impegno dell’Associazione Antimafie “Rita Atria”, per tenere viva la testimonianza di Rita, di cui la tragica fine è simbolo di un percorso tanto travagliato, quanto coerente e fermo, per combattere quotidianamente quel pensiero mafioso diffuso, per scuotere uno Stato assente e una società civile indifferente, come sottolineato dalle fondatrici dell’Associazione, Santina Latella e Nadia Furnari, rispettivamente Presidente e Vicepresidente.

Per questo la morte di Rita pesa sulla coscienza di tutti coloro che l’hanno abbandonata e non hanno saputo proteggerla. È la settima vittima di Via D’Amelio, insieme al giudice Paolo Borsellino, il cui volto amorevole le aveva fatto conoscere « il fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale », e agli agenti di scorta.

Allora, oggi più che mai, in Viale Amelia, la Memoria Attiva si incarna nelle persone e nelle loro storie di testimonianza e di r-esistenza, compagne di un viaggio collettivo, sempre più ampio e partecipato, di lotta quotidiana per la ricerca di verità e giustizia, di liberazione, attraverso la denuncia concreta delle violenze mafiose e quindi nell’impegno per la difesa dei diritti e della dignità.

L’impegno di chi, come Franca Imbergamo, magistrata della Direzione Nazionale Antimafia, che si è occupata del processo sull’omicidio di Peppino Impastato, giungendo alla condanna del boss Tano Badalamenti, svolge il suo lavoro, senza se e senza ma e dietro le quinte, senza grandi riflettori: « I testimoni di giustizia sono una categoria estremamente dimenticata, poco valorizzata. Noi come magistrati facciamo il possibile, forse non facciamo abbastanza… Ci sono persone che hanno avuto il coraggio civile di fare una scelta importante, di contribuire in maniera determinante alle indagini e al processo, questo non dobbiamo dimenticarlo mai. Rita era una ragazzina, a Rita dovevamo di più, un maggiore accompagnamento, dovevamo evitare la solitudine di una casa estranea. Però Rita è stata molto importante per quelli che sono venuti dopo, è stata d’esempio. Ci vuole molto più coraggio a fare il testimone di giustizia, la persona per bene, il cittadino onesto che lotta contro la mafia, di quanto non ce ne voglia dall’altra parte, come magistrati, protetti dallo Stato perché esercitiamo una funzione. Così la prossima volta che vi verrà voglia di plaudire all’azione della magistratura, fatelo però a livello simbolico, dicendo che dietro quella toga, quel magistrato, quel processo, c’è tutto un mondo che spesso ha sacrificato vite, affetti, e che in cambio a volte non riceve abbastanza».

I testimoni di giustizia, quindi, che non hanno commesso alcun crimine, anzi vittime di fatti criminosi o che vi hanno assistito, non vogliono essere o diventare eroi, ma essere solamente cittadini onesti che testimoniano per senso civico nei confronti della collettività. Eppure si ritrovano quasi sempre a perdere ingiustamente tutto. Come Ulisse, nome in codice, il Presidente Onorario dell’Associazione, che ha scelto di testimoniare insieme alla moglie dopo aver assistito ad un omicidio di camorra, uno dei pochi che ha testimoniato su fatti che non lo avevano colpito direttamente, una testimonianza frutto di una vera scelta civica, per amore di giustizia.

Come Gaetano Saffioti, imprenditore calabrese, testimone contro la ‘ndrangheta, che ha deciso di rimanere nella sua terra, nella sua casa, che per proteggersi ha blindato, per continuare a vivere in Calabria e tenere in vita la sua impresa. « Sono quindici anni e sei mesi che mi sento un uomo libero. Libertà intesa come “profumo di libertà” come intendeva Paolo Borsellino e vi posso assicurare è veramente bello. Certo ci sono dei momenti di scoramento. Escluso pochi che si danno da fare, c’è uno Stato poco credibile, perché se ci vogliono anni per fare una legge sui testimoni… Lo Stato dovrebbe prendere come esempio i testimoni, non lasciarli in condizioni di disagio… Nel mio caso, ho fatto come fanno gli uccelli, che non hanno paura di stare sul ramo, perché la fiducia non sta nel ramo, ma nelle loro ali». Come diceva Rita Atria: “Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici. La mafia siamo noi ed il nostro modo sbagliato di comportarci”. Superare la mafiosità nelle azioni quotidiane, prendersi le responsabilità, «essere delle persone per bene», lasciare ai propri figli questo orgoglio.

Si auspica quindi un’approvazione rapida delle legge sui testimoni di giustizia – come sottolineato anche da Davide Mattiello, deputato alla Camera, relatore del ddl in questione – che definisca finalmente in modo autonomo lo statuto dei testimoni di giustizia, affinché non siano più confusi con i collaboratori, anzi ne sia valorizzato l’alto rilievo civico, e siano apprestati gli adeguati strumenti di tutela che ne garantiscano non solo l’incolumità, ma altresì ogni sostegno perché non siano costretti lasciare la propria terra, i propri affetti e quindi di poter continuare e svolgere il proprio lavoro.

«…Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo ». Questa la speranza di Rita. In sua memoria abbiamo il dovere di cancellare quel “forse”, il dovere di cambiare per costruire un mondo onesto, testimoniando verità e giustizia.

Verità e giustizia anche per le vittime delle stragi, come quelle Ustica, per le vittime c.d., “collaterali”, ovvero coloro che sapevano e volevano testimoniare per far scoprire la verità su quei “buchi neri” della nostra Repubblica e sono stati ridotti al silenzio, come Mario Alberto Dettori, radarista dell’Aeronautica militare, morto “suicidato”.

Si auspica vivamente che il Comune di Roma riconosca a Rita Atria la cittadinanza onoraria – richiesta anticipata all’Assessora alle politiche della Scuola, Cultura e Sport e politiche giovanili del Municipio VII, Elena De Santis, intervenuta all’evento. Rita, giovane donna ribelle, con la sua scelta coerente di libertà dal patriarcato mafioso, rappresenta un riferimento forte per le giovani e i giovani, una “stella” che può illuminare e creare un percorso limpido, libero di autodeterminazione.

Come sottolineato da Nadia Furnari, ai giovani bisogna avvicinarsi attraverso le «emozioni», affinché si immergano nelle storie e le sentano proprie, e quindi occorre utilizzare strumenti come il teatro, la musica, il fumetto, la fiction. Sotto questo profilo, si è debitori a Vittorio Nevano, il regista della fiction Non parlo più – scritta da Nicola e Giuseppe Badalucco – , per aver raccontato in modo aderente e delicato la storia di Rita – interpretata da Lorenza Indovina per la quale «è stato un onore interpretare un’anima così bella e complessa… Molti dei suoi gesti e delle sue parole mi sono rimaste impresse e mi sono ancora d’insegnamento», mentre la figura del giudice Borsellino era incarnata da Luigi Diberti. In questo modo, la testimonianza di Rita può entrare a fare parte del vissuto dei giovani per far scoprire loro la bellezza del mondo libero dalla mafia e dal pensiero mafioso, come lei avrebbe voluto.

Alla fine risuona l’Ave Maria di Schubert, grazie al violino di Antonella Serafini e alla voce della soprano Anca Vasilica Muraru, le note che desiderava Rita per accompagnarla nell’ultimo viaggio, lasciando di nuovo a noi il testimone perché «l‘unica speranza… è non arrendersi mai».


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