A Vieste, rinomata località turistica del Gargano, provincia di Foggia, «Omar Trotta, 31enne pregiudicato» viene «ucciso all’interno del suo locale» e una troupe del programma di Rai2 Nemo – Nessuno escluso viene inviata sul posto per realizzare «un reportage sulla mafia foggiana». Il film maker Riccardo Cremona e il cronista Nello Trocchia che subisce una «violenta aggressione». Trauma facciale e diffuse escoriazioni diagnosticano i medici del Pronto Soccorso. Nello Trocchia è anche collaboratore de il Fatto Quotidiano, tra i primi a riportare la notizia e biasimare l’accaduto insieme alla Federazione Nazionale della Stampa italiana che ha espresso «solidarietà e vicinanza» tramite un comunicato a firma congiunta del segretario generale Raffaele Lorusso e del presidente Giuseppe Giulietti.
Non è la prima volta che Trocchia viene aggredito e, nonostante si speri sia sempre l’ultima, purtroppo episodi simili e parimenti gravi troppo spesso si verificano nell’assordante silenzio degli stessi media che poco risalto danno a notizie di questa gravità.
Il silenzio è mafia, l’omertà è mafia. Accettare in sordina episodi simili equivale ad armare il braccio feroce dell’intimidazione mafiosa e della altrettanto pericolosa omertà di chi mafioso non si ritiene. Si lascia vincere la mafia anche quando si afferma che la mafia non esiste.
Tante sono le parole che andrebbero urlate a squarciagola, riportate a caratteri cubitali, trasmette in video e filmati… innumerevoli sono i pensieri che sovvengono ripensando a questi accadimenti e le autorevoli frasi scritte dallo stesso Trocchia li racchiudono tutti, egregiamente. Per questo si è scelto di riportarli per intero. Perché se non si riesce a dire e fare di meglio almeno ci si adoperi per fare da cassa di risonanza, per illuminare l’oscuro e rompere il silenzio.
«Vi ringrazio assai per la vicinanza e l’affetto. È passato lo spavento e sto meglio, passa tutto. Sul posto c’era una sola telecamera, la nostra, e, invece, dovremmo illuminare a giorno quello che succede nel foggiano. Un omicidio ogni dieci giorni dallo scorso aprile, è spaventoso, come la ferocia e l’aggressività di chi vive in questa quotidiana violenza. Stavo facendo il mio dovere come lo fanno decine di colleghi in terra di mafia. Io non faccio niente di speciale, io sono solo un cronista, e, credetemi, l’elenco è lungo di quelli che vengono aggrediti, intimiditi. Persone che stimo e apprezzo e, come già successo in passato, se ho un attimo per fermarmi e condividere una riflessione è giusto allargarla a loro. A chi è pagato da fame, a chi è solo quando viene intimidito, a chi racconta in questi territori. Un collega, l’altro giorno, mi disse che con 700 euro al mese e quattro querele fisse all’anno era in procinto di abbandonare la professione. Meno siamo a raccontare e più siamo soli. Un quadro desolante che fa comodo a molti. Ogni potere, da quello criminale a quello politico a quello imprenditoriale, lavora per ridurre gli spazi di libertà. Le aggressioni, le intimidazioni e le querele temerarie fanno un male diverso. Le ho conosciute tutte e hanno lo stesso scopo: spegnere il racconto.
Ieri guardavo l’immensità di questo mare, pensavo al mio sud che amo profondamente. Mi atterrisce l’idea di lasciarlo a chi spara in pieno centro alle 3 del pomeriggio, di lasciarlo ai criminali. Ed è solo per questo che ancora resta voglia di continuare a raccontare perché sono nato in un posto sventrato da politica criminale e malavita e appare ancora inaccettabile, ai miei occhi, abituarsi all’idea che alla fine vincano loro».