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Il tesoro sciupato delle televisioni e radio locali

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E’ in corso la discussione presso le commissioni competenti delle due Camere –per il parere dovuto- lo schema di regolamento (n.429) sull’erogazione delle risorse alle emittenti locali. Una disciplina del genere esiste dalla fine degli anni novanta, quando la “finanziaria” del 1998 introdusse un dispositivo simile al comma 3 dell’art. 45, con una spesa di 81 miliardi di vecchie lire dal 1999 al 2001. Ora sono previsti circa 110 milioni di Euro all’anno (85% per le televisioni e il 15% per le radio) per il periodo 2016/2018.
Il quadro normativo di riferimento è cambiato, agganciandosi al “Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione” deciso dalla legge n.198 dell’ottobre 2016, la cosiddetta riforma dell’editoria. La copertura dovrebbe stare in buona parte nell’extra-gettito del canone rai, dopo che la riscossione attraverso la bolletta elettrica ha fatto lievitare le entrate. E così il consiglio dei ministri varò il primo testo, sottoposto poi al Consiglio di stato, lo scorso 24 marzo.

Un’amara considerazione è d’obbligo e riguarda la marginalità passiva cui sono relegati settori importanti della vita sociale. E’ proprio il caso delle emittenti locali, vere e proprie avanguardie della rottura del monopolio statuale, a seguito della sentenza n.202 del 1976 della Corte costituzionale. Lusingate da cospicua parte del mondo politico fino a che vigevano le preferenze o i collegi uninominali, il “Porcellum” con le liste bloccate le ha relegate a ruoli secondari. Ma la brutta gestione della transizione digitale ha dato il colpo di grazia, disperdendo le stazioni locali nel ginepraio dell’offerta numerica. Andavano meglio tutelate, se è vero che proprio l’evoluzione tecnologica ne fa(rebbe) una potenziale isola del tesoro nella convergenza con le telecomunicazioni. Nella relazione di Marco Rossignoli al convegno annuale (21 giugno 2017) del maggior raggruppamento associativo –AerAnti-Corallo- si chiede un rapido intervento legislativo sulla questione dell’ordinamento dei canali. Non solo su tale argomento sarebbe necessario un moderno intervento normativo, ovviamente: il locale vale di più, non di meno delle reti nazionali. Solo una maggiore visibilità costituirebbe una modalità selettiva democratica e consensuale, costringendo a puntare sulla qualità dell’informazione e dei programmi.
Al contrario, l’articolato odierno rischia di essere per molti soggetti una inesorabile bocciatura, ancorché già attenuata rispetto allo schema originario. Più o meno 500 televisioni e oltre 1000 radio popolano il villaggio, forse troppo dice l’antico tormentone. Sarà. La razionalizzazione, allora, avvenga sui caratteri mediali, non su asettici dati quantitativi. Purtroppo è il difetto principale dello schema di regolamento, davvero perfettibile. Il numero dei dipendenti richiesto è, in particolare per la componente televisiva, troppo elevato, se rimane un dato isolato dalla situazione reale: disoccupazione, precariato diffuso. Andrebbe se mai ribaltato il requisito: occupazione effettiva con nuovi contratti in un tempo definito, non il contrario. Perché così non si facilita il lavoro, ma si premiano solo i “ricchi” o i meno poveri. Da 18 a 8 dipendenti, a seconda della densità dei territori, è il pendolo immaginato, con chiaro vantaggio per le regioni del nord. Per le radio, figlie di un dio minore, 2 addetti. Chi si salverà dal neo-darwinismo? Tanti anni fa, per soglie minimali (3 persone per le tv e una per le radio) scattò la protesta del “popolo dei fax”. Qui non scatta niente?


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