I dati Istat sulla povertà in Italia e il report trimestrale dell’Osservatorio Congiunturale della Fondazione Res, curato dal prof Adam Asmundo, stimolano qualche ulteriore commento politico generale e suggeriscono di sussurrare anche qualche proposta operativa al Governo della Regione, all’Ars e alle forze politiche siciliane ormai all’ultimo e travagliato miglio verso le elezioni di Novembre. Non vogliamo rinunciare alla speranza di uno scatto di vitalità e attenzione verso la grave situazione sociale dei poveri in Sicilia che gli ultimi dati danno ancora in aumento raggiungendo una percentuale quasi doppia della media nazionale.
Riassumendo i dati Istat: essi confermano una debole crescita del Pil in Italia, ma anche della disoccupazione e della povertà, quasi 5 milioni di poveri, triplicati in dieci anni di crisi, con i giovani tra i più svantaggiati.
Il Report della Res conferma il consolidamento di una lenta ripresa del Pil in Sicilia dove, però, le condizioni delle famiglie risultano le peggiori tra quelle italiane. Infatti, oltre la metà delle famiglie siciliane ha un reddito di 18 mila euro, inferiore al valore medio italiano di 21 mila euro e lontano dai 34 o 37 mila del Piemonte e della Lombardia.
Inoltre l’Osservatorio Res, soppesando la disuguaglianza con l’indice Gini, rileva che esso mentre in Italia dal 2008 al 2015 è cresciuto dal 5,2 al 5,8, in Sicilia è passato da 5,7 a 8,3. Un indice Gini più elevato in Sicilia dove le famiglie più ricche percepiscono nel 2015 un reddito 8,3 volte superiore a quello delle più povere. Nel 2008 era superiore “solo” di 5,2 volte. Un divario abnorme tra i ricchi e i poveri portatore di sfiducia e protesta!
C’è un problema di fondo in Italia, in Europa e in Occidente che per responsabilità politica dei vari governi non è stato risolto. La crescita della disuguaglianza segna il fallimento delle politiche neoliberiste perseguite in questi ultimi trent’anni sia dalle classi dirigenti conservatrici che progressiste ambedue prone alla nuova dea Tina “There Is No Alternative”: dalla Thatcher a Tony Blair ad Angela Merkel, da Bush a Clinton, da Berlusconi a Renzi. Di fronte alla globalizzazione finanziarizzata hanno rinunciato a imporre una governance politica democratica affidandosi all’idea, storicamente dimostratasi fallace, che il libero mercato, secondo le dottrine classiche, avrebbe sistemato tutto. Hanno dimenticato le crisi cicliche e secolari del capitalismo che hanno attraversato il Novecento con le due guerre mondiali e il lungo periodo di crescita sino agli settanta ottenuto con l’intervento pubblico kennesiano perseguito dalle democrazie occidentali.
Una nuova politica progressista deve scegliere come affrontare e superare questo nodo con un ribaltamento delle politiche neoliberiste che hanno generato la crisi globale del 2008 e la regressione attuale. Come dimostra la storia contemporanea, il mercato non si autoregola, l’austerità voluta dalla Troika come dal FMI ha lacerato l’Ue e il mondo, ha dilatato la disuguaglianza sociale, ha aggravato la regressione dei paesi strutturalmente più deboli. Come documentano gli economisti che analizzano l’attuale crisi del capitalismo “la grande regressione contemporanea non è l’inizio di una nuova era economica, ma la conclusione di una scelta strategica delle classi dominanti occidentali per superare la crisi di accumulo di capitale degli anni settanta, cioè un esito logico di mercificazione generalizzata già vista da Polanyi interpretando la crisi della sua epoca dopo le due guerre del novecento”.
Intanto, in tutto il mondo nascono movimenti di reazione al neoliberismo che si muovono nell’ambito della destra, anche per l’incapacità della sinistra di parlare agli interessi sociali dei più deboli, di avanzare una critica economica al libero mercato e di contrastare in modo adeguato la battaglia narrativa della destra xenofoba sui migranti, sulla globalizzazione che svuota le sovranità nazionali. Con la globalizzazione governata dal pensiero neoliberista espresso dalle classi dirigenti occidentali la società ha visto accentuarsi la de-collettivizzazione dello Stato sociale, la demolizione del Welfare, della solidarietà delle comunità e delle associazioni intermedie che sono state e sono anche scuola di democrazia e civiltà.
Tornando alla Sicilia e all’Italia: se si fossero trovati 17 miliardi di euro, come per le banche venete, invece di 1,7, anche per il reddito di inclusione sociale, quanta povertà sarebbe stata eliminata? Quanta fiducia avrebbe riscosso il governo di centrosinistra e quanta distanza avrebbe segnato dalle politiche di destra? Non bastano lo Ius soli o le unioni civili per definirsi di sinistra se la giusta estensione dei diritti civili non è accompagnata da politiche sociali inclusive, concertate con le forze intermedie, capaci di stimolare la democrazia dal basso, e che mirino a creare investimenti per l’occupazione, la ricerca, la conoscenza, l’innovazione, l’ambiente.
La classe dirigente siciliana prima delle prossime elezioni dovrebbe trovare la forza politica per uno scatto di sensibilità verso tutti i poveri dell’isola. Discuta il ddl d’iniziativa popolare contro la povertà presentato da un vasto schieramento sociale comprendente il Centro studi La Torre e giacente all’Ars! Lo finanzi per allargare la platea del primo intervento statale che riguarderà solo il trenta per cento delle famiglie più povere con figli minori! Lo accompagni con un’idea alternativa di sviluppo e crescita produttiva della Sicilia che purtroppo ancora non riusciamo a riconoscere tra le schermaglie politiciste dei vari schieramenti!