L’emergenza rifugiati più grave dell’Africa, tra le più vaste in assoluto, è in corso in Sud Sudan. A testimoniarlo i cooperanti impegnati sul terreno e i vescovi di Juba sempre più preoccupati per le condizioni difficilissime in cui sopravvive la popolazione che, nonostante tutto, resta nel Paese.
Oltre a lanciare l’allarme per l’aggravarsi della situazione i vertici della chiesa sudsudanese hanno rivolto un appello alla comunità internazionale affinché sostenga le ong, che rappresentano l’unico argine al baratro assoluto, impegnate a dare assistenza e a portare aiuti ovunque possano arrivare. Molte realtà, purtroppo, non sono raggiungibili per via degli scontri continui tra militari e ribelli.
Eppure non bisogna perdere la speranza, mai. Questo è il messaggio che trasmettono gli alti prelati ma anche gli operatori umanitari che sostengono gli oltre 2 milioni i profughi interni e i 300mila rifugiati nei Paesi vicini.
La crisi, determinata da vari fattori, tra cui una grave carestia, una guerra civile e l’economia nazionale al collasso, ha messo in ginocchio il Paese più giovane al mondo, nato con una storia già molto travagliata e fragile dal punto di vista istituzionale.
Per non parlare della vastità delle violenze e dei crimini perpetrati da entrambe le parti coinvolte nel conflitto in atto nel Paese, a parte breve interruzioni per i tentativi (fallimentari) di governi di unità nazionale, da oltre tre anni.
Sia un’inchiesta delle Nazioni Unite, sia l’ultimo rapporto di Amnesty International non lasciano più adito a dubbi: in Sud Sudan si è travalicato il limite della guerra civile. E’ in atto una vera e propria pulizia etnica.
Unicef e Unhcr parlano di ulteriori 60 mila sfollati che si aggiungono ai 700 mila già censiti dall’inizio degli scontri.
La maggior parte sono donne e bambini che hanno lasciato ogni cosa per fuggire e mettersi in salvo.
Nonostante le ong impegnate sul campo abbiano potenziato il personale, continuano a sussistere grandi difficoltà per l’aumento continuo della richiesta di aiuto, in primis di distribuzione di alimenti e farmaci salva vita, oltre che di tende, sia nei centri di transito che in quelli stabili gestiti dall’Alto commissariato Onu per i Rifugiati in collaborazione con l’Organizzazione internazionale delle migrazioni, il Programma alimentare mondiale e altre organizzazioni non governative.
I vertici dell’Unione Africana che cercano di porre fine alla crisi favorendo il dialogo tra le forze armate leali al presidente Salva Kiir e i militari fedeli all’ex vice presidente Reik Machar, hanno evidenziato l’importanza “prioritaria” della messa in sicurezza dei civili, soprattutto perché gli enormi bisogni umanitari dei paesi che accolgono i profughi aumenteranno a causa della carestia che ha investito tutta la regione.
Gli operatori temono un ulteriore deterioramento delle condizioni umanitarie e non escludono possibili epidemie di colera, malaria e meningite. L’insieme crea una miscela esplosiva che, su spinta di Guterres, dovrebbe portare all’ok del Consiglio di sicurezza dell’Onu al rafforzamento della missione con un mandato più forte e risorse adeguate per proteggere la popolazione e ristabilire l’ordine nell’area.
Il precario equilibrio regionale si è definitivamente incrinato nel giugno del 2016 quando i militari di Juba hanno spinto la controparte verso Yei, cittadina strategica con oltre 300mila abitanti che rappresenta un importante snodo di scambi commerciali tra Sud Sudan, Uganda e Repubblica Democratica del Congo.
Il recente rapporto di Amnesty denuncia che le forze governative, appoggiate da milizie locali tra cui la famigerata e impunita “Mathiang Anyoor” (composta per lo più da giovani combattenti di etnia dinka), si sono rese responsabili di una lunga serie di violazioni dei diritti umani, che in scala minore sono state perpetrate anche dai gruppi armati di Machar.
Numerosi testimoni oculari dei villaggi intorno a Yei hanno raccontato ad Amnesty International come le forze governative e le milizie loro alleate abbiano “ucciso numerosi civili in modo deliberato e con ferocia”. Uno degli episodi più gravi, la sera del 16 maggio, quando i soldati di Kiir hanno arrestato 11 uomini del villaggio di Kudupi, costretti a entrare in una capanna poi incendiata. È evidente che questi attacchi rappresentano crimini di guerra con un solo fine: terrorizzare la gente riconducibile all’opposizione e colpirla per rappresaglia. Con l’intensificazione dei combattimenti è cresciuto in modo esponenziale il numero dei rapimenti e delle violenze sessuali, anche su adolescenti e bambine. Lo stupro in Sud Sudan, come in tante altre realtà della regione in cui sono nati e si sono consumati nell’indifferenza del mondo genocidi e crimini contro l’umanità indicibili, è usato come arma di guerra.
Il tutto nell’indifferenza dei media mainstream che continuano a lasciare in un cono d’ombra questa immensa crisi dimenticata.
Anche per questo Papa Francesco ha annunciato da tempo che si recherà in Sud Sudan. Sarà un visita con una duplice finalità: portare la sua vicinanza a un Paese distrutto dalla guerra e dalla carestia e illuminare questa tragedia umanitaria che si sta consumando nell’indifferenza di tutti.