#Freeidileser, appello per la liberazione della direttrice di Amnesty Turchia e gli altri attivisti arrestati ieri

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Articolo 21 aderisce e rilancia l’appello per chiedere la liberazione della direttrice di Amnesty Turchia Idil Eser e degli altri difensori dei diritti umani arrestati ieri a Buyukada, isola al largo di Istanbul.
Amnesty International, che continua a essere nel mirino di Erdogan dopo che a finire in prigione era stato il presidente dell’organizzazione Taner Kilic, ha lanciato una petizione con l’hastag #freeidileser.
Oltre alla Eser sono state coinvolte nell’operazione della polizia turca altre 11 persone, di cui nove attivisti che partecipavano a un meeting di formazione sulla sicurezza informatica e la libertà di informazione in un hotel.
Non vi è dubbio che si tratti di un’ennesima azione repressiva. L’ultima di una lunga serie.
“Siamo di fronte a un grottesco abuso di potere che evidenzia la situazione precaria degli attivisti per i diritti umani nel paese – ha sottolineato il segretario generale di Amnesty, Salil Shetty – Idil Eser e gli altri arrestati devono essere liberati immediatamente e senza condizioni”.
Lo scorso 7 giugno era già stato arrestato l’avvocato Taner Kilic, presidente di Amnesty Turchia, insieme ad altri 22 legali con l’accusa di far parte della rete fondata dal predicatore islamico Fethullah Gulen, ritenuto l’organizzatore del fallito colpo di stato del luglio 2016.
“Il fatto che la purga successiva al tentato colpo di stato abbia raggiunto persino il presidente di Amnesty International dimostra fino a che punto il governo turco si sia spinto. La storia di Taner Kilic  parla chiaro: è quella di un uomo che ha sempre difeso quelle libertà che le autorità di Ankara stanno cercando di annullare” aveva commentato Shetty.
Mentre l’ondata di arresti e di purghe continua ad abbattersi su giornalisti, intellettuali, attivisti e chiunque si spinga a manifestare il proprio dissenso o a criticare Erdogan e il suo governo, è quasi giunta al termine la marcia per la giustizia partita da Ankara il 15 giugno.
I manifestanti sono ormai alle porte di Istanbul dopo un cammino di oltre 500 chilometri da Ankara al Bosforo e sono attese almeno un milione di persone al meeting conclusivo di domenica prossima davanti al penitenziario di Maltepe a Istanbul dove è detenuto il vice segretario del Partito repubblicano Eni Berbelogus, condannato a 25 anni di carcere.
L’aspettativa del leader della marcia e del principale partito turco di opposizione, Kemal Kilicdaroglu, è ancora più ottimistica e ritiene che si possano sfiorare i due milioni.
“Manifestare il dissenso in maniera civile è un diritto costituzionale e ogni turco che crede nella democrazia e nella libertà di espressione non potrà che essere in piazza von noi” è la convinzione di Kilicdaroglu.
La polizia, che segue da vicino gli spostamenti delle centinaia di migliaia di marciatori, si è finora impegnata a proteggerli da provocazioni e attacchi. Non sono mancati finora atteggiamenti minacciosi nei confronti di chi ha deciso di aderire a questa importante manifestazione di disobbedienza civile. Tre persone sono state fermate, nei giorni scorsi, con l’accusa di aver spruzzato fertilizzante nelle aree in cui hanno campeggiato i sostenitori del partito repubblicano Chp e lo stesso Kilicdaroglu.
Vi è anche un forte timore per eventuali azioni jihadiste. Secondo fonti dei servizi di sicurezza ieri sarebbe stato sventato un attacco. Almeno quattro presunti appartenenti a una cellula dell’Isis sono stati arrestati e altri due sono ricercati per aver organizzato un attentato.
Ma né le provocazioni né la paura per eventuali attacchi terroristici hanno finora rallentato la marcia che chiede giustizia per le vittime delle politiche repressive poste in essere dopo il golpe dal presidente Recep Tayyip Erdogan, che hanno portato in carcere oltre 40 mila e al licenziamento di circa 150 mila persone.
L’appuntamento finale è per il 16 luglio, data simbolica visto che proprio quel giorno cade l’anniversario del fallito colpo di Stato che ha portato alla repressione e alle violazioni dei diritti fondamentali di migliaia di cittadini turchi, tra cui oltre 150 giornalisti.


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