“Se lanci una marcia a favore dei terroristi e dei loro sostenitori non puoi convincermi che il tuo scopo sia la giustizia”. Così il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha bollato la marcia per la giustizia promossa in Turchia dal partito di opposizione Chp e alla quale hanno aderito molte città del paese. Non sarà l’inizio di una rivoluzione ma di sicuro l’iniziativa che ha preso il via da Ankara il 15 giugno, e giunta al 22esimo giorno di percorso, rappresenta la prima grande protesta di piazza dopo le manifestazioni del 2013 di Gezi Park, che si conclusero con nove morti e migliaia di feriti a causa della repressione della polizia che usò lacrimogeni e armi da fuoco per disperdere i dimostranti.
F mobilitarsi in modo massiccio non è stato solo il partito repubblicano, a cui si è affiancato l’Hdp, la formazione politica dei curdi democratici, ma tantissimi cittadini con un unico fine: chiedere il rispetto e la difesa dei diritti civili e la fine dello stato d’emergenza, delle epurazioni politiche, degli arresti dei giornalisti.
A rilanciare ieri la marcia per la giustizia, che prevede un percorso di 450 chilometri, 20 al giorno, con decine di tappe è prosegue il suo cammino verso Istanbul, il leader in carcere del partito filo curdo, Selahattin Demirtas. Dalla prigione dove si trova dal 4 novembre del 2016 ha lanciato un appello “alle forze sane e democratiche turche” a essere compatte e unirsi all’iniziativa, in particolare tutti i gruppi dell’opposizione.
Nelle stesse ore il leader del Chp, maggiore forza politica antagonista di Erdogan, Kemal Kilicdaroglu, avvertiva di potenziali azioni provocatrici contro i manifestanti che partecipavano alla marcia.
“Vorrei che tutti noi, qualora ci fossero tentativi di provocazioni – ha affermato Kilicdaroglu – rispondessimo con degli applausi”.
La marcia della giustizia, che finora ha visto i partecipanti vittime di insulti e di lancio di pietre, continua pacificamente.
“Stiamo marciando per la giustizia e per la democrazia – ha aggiunto il leader del Chp – Per questo consideriamo i sassi che ci hanno lanciato contro come rose e gli insulti come belle parole”.
Il presidente Erdogan sin dal primo momento aveva aspramente criticato l’iniziativa sostenendo che si trattava di un’attività eversiva.
Gli organizzatori prevedono che all’arrivo al carcere di Maltepe dove è detenuto il vice presidente del Chp, Enis Berberoglu, condannato a 25 anni di carcere con l’accusa di aver divulgato segreti di Stato, ovvero informazioni sul presunto trasferimento di armi turche ai ribelli siriani, i partecipanti saranno almeno in 10 mila.
La manifestazione segue le decine di migliaia di arresti e di licenziamenti resi possibili dallo stato d’emergenza proclamato dopo il tentativo di golpe del 15 luglio del 2016 dal presidente Erdogan e più volte prorogato nel corso dell’ultimo anno.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata proprio la condanna di Berberoglu.
Nel gennaio 2016 un giudice della Procura di Istanbul aveva chiesto la condanna anche per i giornalisti Can Dundar e Erdem Gul, accusati di spionaggio militare e politico, per pubblicato sul quotidiano Cumhuriyet un’inchiesta dopo la fuga di notizie sul traffico d’armi costata la libertà all’esponente repubblicano. Il giornale aveva anche diffuso alcune foto che testimoniavano il coinvolgimento dell’intelligence turca nella vicenda.
Nel giugno 2015, alla vigilia delle elezioni politiche, erano state avviate le indagini a carico dei due redattori, arrestati poi il 26 novembre.
Anche per loro, per gli altri giornalisti (ormai oltre 150) e per le decine di migliaia di persone licenziate e arrestate in Turchia, nella magistratura come tra le forze armate, nella polizia e tra le istituzioni pubbliche, tutte ritenute complici della rete facente capo al predicatore islamico Fethullah Gulen, considerato la mente del fallito colpo di stato, il 9 luglio, a conclusione della marcia, i manifestanti reclameranno quella giustizia che da un anno e piegata alle logiche e alla volontà di un regime che ormai non ha più freni.