Renzo Arbore compie ottant’anni. E dopo la scomparsa (recente) di Gianni Boncompagni e quella (meno recente) di Mariangela Melato, dice che non ha proprio voglia di festeggiare.
«Mi chiamo, come risulta dai documenti, Lorenzo Giovanni Maria Antonio Domenico Arbore. In arte Renzo. Sono nato l’anno in cui è morto Guglielmo Marconi (1937 – ndr) e non ho fatto in tempo a dispiacermi…».
Cominciava così, con queste righe autografe, il suo libro “E se la vita fosse una jam session?”, sottotitolo “Fatti e misfatti di quello della notte” (Rizzoli, pagg. 311, euro 35). Un volume curato da Lorenza Foschini (già volto noto del Tg2) che un paio d’anni fa celebrava mezzo secolo di carriera di un grande showman.
«Un libro – spiegava l’artista, pioniere di nuovi linguaggi e registri – improvvisato come la mia vita, perché all’improvvisazione devo la mia passione per la musica che poi è diventata passione per la parola improvvisata. Ho cercato di non parlare solo di me, ma di quello che ho visto perché possano vederlo gli altri e, vedendolo, possano dire sì, forse era proprio così. E anche di quello che il pubblico vorrebbe sapere di me, dai retroscena ai backstage. Nelle pagine ci sono le mie dieci o quindici passioni, dalla plastica a Napoli, dal jazz alla provincia, da New Orleans allo shopping, da Totò ai pupazzetti o alle luci colorate, in una sorta di rassegna. Non c’è niente che sostenga idee come io sono bravo. Io sono solo stato fortunato perché adesso mi sono accorto di aver vissuto rispettando la sacra regola del carpe diem».
Non la solita biografia di un uomo di spettacolo. Da grande anticipatore e contaminatore qual è sempre stato, Arbore si divertiva a introdurre il lettore in quel caleidoscopio che è stato – ed è ancora – il suo lavoro alla radio, in televisione e sui palcoscenici italiani e di mezzo mondo.
«Nel libro racconto le cose che ho visto. La mia vita è diventata abbastanza lunga quindi ci sono diverse cose: ho visto la guerra, il dopoguerra, gli americani, gli anni di piombo e quelli delle mie trasmissioni. E c’è anche la politica».
In parallelo, mentre lo sperimentatore radiofonico (assieme a Gianni Boncompagni) di “Alto gradimento” diventa prima l’innovatore del varietà televisivo e poi, molto tempo dopo, il leader dell’Orchestra Italiana, è infatti possibile leggere quasi in filigrana i mutamenti culturali, sociali, politici oltre che ovviamente di costume del nostro Paese. Il tutto partendo dalla Foggia dell’immediato dopoguerra, dove il giovane Arbore teneva già allora le antenne ben dritte verso il nuovo, che all’epoca non poteva che essere l’America.
Diceva: «Quello che ho visto della società e della vita civile, dalla guerra che ho visto a Foggia quando ero un bambino, poi con gli americani, poi quando sono andato a Napoli e dopo a Roma, e che vedo ancora oggi guardando la televisione e la rete, che è la mia ultima passione». Le sue città, le raccontava così: «Foggia, la provincia, con tutto quello che mi ha insegnato; Napoli, una città di cultura straordinaria; Roma, città ospitalissima e veramente capitale del nostro Paese; e poi l’America tra New York, Los Angeles, Miami, New Orleans, il sogno che avevo fin da bambino quando ho visto arrivare gli americani nella mia città».
Il suo segreto? Il segreto del suo successo? Facile, almeno a parole: «Ho cercato sempre di fare quello che non facevano gli altri. Ho cercato di fare l’altro e quindi l’altra radio, l’altra musica, l’altra canzone napoletana, l’altro cinema. Sono afflitto da ricorrenti passioni che ho sempre tradotto in opere vagamente artistiche».
La radio. «Adoro la radio, è uno strumento fantastico. Mi ha insegnato a vincere la timidezza. La amo perchè avendo solo la voce è il mezzo che, più della televisione, scatena la fantasia. Alla radio puoi raccontare una storia e descrivere un personaggio affidandoti all’immaginazione di chi ti sente. Facendola, impari l’importanza del ritmo che è indispensabile per catturare l’ascoltatore. La radio è stata la prima a capire quanto contino le scelte tematiche, infatti ci sono le radio dei cattolici, quelle del rock, del jazz, le radio dei deejay con voci particolarissime…». E tutte le radio italiane, di ieri e di oggi, devono forse qualcosa agli esordi di Arbore a “Per voi giovani”, a “Bandiera gialla” e soprattutto ad Alto gradimento”.
La televisione. «Noi facevamo una televisione con velleità artistiche e “Quelli della notte”, essendo stato un programma improvvisato e cult, e avendo un marchio potente e indelebile come “Lascia o raddoppia?” di Mike Bongiorno, ha lasciato un segno perché era assolutamente anomalo, è stato il biglietto da visita e la dichiarazione di un modo di fare televisione che nessuno faceva». L’Italia. «Ho recuperato il patriottismo con “Telepatria International”, ho celebrato la fine degli anni del terrore e degli anni di piombo con “Quelli della notte” passando dal riflusso all’edonismo reaganiano, ho fatto la satira della televisione degli anni Ottanta con “Indietro tutta”. Non ne potevo più di dire da dove chiama, il programma lo fate voi, gli sponsor, il cacao meravigliao, le ragazze coccodè…».
La politica. Negli anni d’oro Pertini lo invitava al Quirinale, Berlusconi lo voleva nelle sue televisioni, Craxi «mi propose di candidarmi sindaco di Napoli per i socialisti. Io mi vestii da donna e con Gigi Proietti mi presentai sul palco intonando “Malafemmina” alla presenza di Bettino. Lui si divertì e capì che non volevo fare il sindaco».
La vita privata. «Ho trascurato l’idea di farmi una famiglia, che avrei dovuto fare con Mariangela Melato, l’amore più grande della mia vita, ma ci siamo distratti». Gli anni con l’attrice sono stati quelli «della formazione, dei primi successi, dell’incontro con l’arte, con il grande cinema, con il teatro». E la famiglia più o meno tradizionale che Arbore non ha avuto è diventata quella degli amici e colleghi, di quell’allegra brigata che comprende fra gli altri Nino Frassica a Marisa Laurito, da Roberto Benigni a Isabella Rossellini. «Guardandomi indietro – concludeva Arbore quelle poche righe citate all’inizio – mi accorgo che mi sono sempre divertito a improvvisare pensieri, parole e suoni strampalati, prima da solo e poi con tanti amici. La mia vita è sempre stata un concerto improvvisato, insomma una jam session. Punto».
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