“Vertice segreto Casaleggio-Salvini”, spara la Repubblica. Una decina di giorni fa a Milano. “Chiesto dal leader del Carroccio al figlio del fondatore per fronteggiare lo scenario di un governo Renzi-Berlusconi”. Balle, smentiscono ambedue gli interessati. A cominciare da Casaleggio:”Non ho mai incontrato Salvini. Non ho mai avuto nessun incontro segreto né con lui né con altri rappresentanti della Lega”. Di Maio annuncia querela:” Calabresi ha inventato la fakenews “per coprire il Pd e l’approvazione di un’oscena riforma del processo penale”. “Noi abbiamo fonti certe – replica il direttore del quotidiano – Se Di Maio è convinto che abbiamo detto il falso quereli Repubblica e una volta in tribunale tireremo fuori le fonti e dimostreremo che abbiamo ragione noi”. E a quella di Di Maio si aggiunge la querela di Roberto Fico, presidente della Commissione parlamentare di vigilanza. Qualcuno mente sapendo di mentire. Chi?
Con più di mezzo secolo di professione alle spalle conosco abbastanza bene la legge che impegna giornalisti e editori a “rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse” (art. 2 della legge 3.2.1963 n.69). Anche perché in passato, come consigliere nazionale dell’Ordine e poi presidente del collegio dei probiviri di Stampa Romana sono stato chiamato ad applicarla. Quest’obbligo però non autorizza a scrivere e pubblicare qualunque notizia non verificabile dall’esperienza comune senza impegnare seriamente la propria credibilità. Il diritto del cittadino ad avere un’informazione corretta prevale anche sul dovere di protezione della fonte. Apparire oltre che essere credibili per i giornalisti è un dovere.
Nel caso concreto, se io, cronista o direttore, scrivo o pubblico che Matteo Salvini e Davide Casaleggio si sono incontrati a Milano, non posso essere smentito da entrambi i protagonisti senza produrre alcuna prova che dimostri la mia “lealtà e buona fede” (art. 2 cit.), soprattutto se la notizia assume un particolare significato politico al quale non sono disinteressato. Pena una perdita di credibilità mia e della professione che esercito. Che poi quest’ultima non goda di molto credito nell’opinione degli italiani è rilevato da molti sondaggi ma non mi sembra il caso di rassegnarsi a quella che i sociologi chiamano l’era della “post-verità”. Sta di fatto che oggi la rivelazione di uno scandalo risulta efficace soltanto se documentata da un’intercettazione, altrimenti si limita a rafforzare un pregiudizio esistente. Proprio perché la registrazione di un colloquio non può essere facilmente smentita come la narrazione (o la sintesi) del giornalista, che si può mettere tranquillamente in dubbio.
Per fortuna la credibilità dei politici è ancora minore di quella dei giornalisti e ciò spiega l’ostilità dei primi per tutto ciò che, come le intercettazioni appunto, può documentare una notizia scabrosa. Se il giornalista non dispone di tali prove, basterà all’interessato minacciare una bella querela per diffamazione. Servirà a tamponare lo scandalo rinviando se non altro la reazione sfavorevole dell’opinione pubblica. Molto giustamente le organizzazioni dei giornalisti hanno rimarcato anche di recente il danno, non solo economico, arrecato soprattutto all’informazione dei cittadini dal moltiplicarsi delle querele temerarie. Sanzionare le quali con una legge è diventato oggi più che mai necessario. Così come tentare di ristabilire l’autorevolezza del giornalismo scoraggiando la competizione che si affida a una corsa improvvisata agli “scoop” o all’enfasi posta nei titoli e nei sommari dei tg per suggestionare piuttosto che informare lettori e telespettatori.