Rotte le connivenze, sono venute meno anche le alleanze e la stessa maggioranza di destra-destra che hanno governato l’attività legislativa argentina negli ultimi 15 mesi. Al momento di sancire il controllo di Milei anche sulla Corte Suprema, i senatori dell’ex presidente conservatore Mauricio Macri e quelli delle formazioni moderate si sono uniti per la prima volta all’opposizione di centro e di sinistra, lasciando l’attuale capo dello stato nella netta minoranza assegnata al suo partito dal voto elettorale. La sempre più esplicita vocazione personalistica e autoritaria di Milei ha portato così a un inatteso, clamoroso capovolgimento. Sebbene nelle ultime ore se ne avvertisse qualche segno (per dirne uno: Jorge Macri, cugino diretto, compagno di partito di Mauricio e sindaco di Buenos Aires, invitato a farsi campagna elettorale nell’emittente TV della sinistra peronista che da sempre lo criticava aspramente), lo scetticismo ha prevalso fino al fatto compiuto. Che coincide con il salto alle stelle del rischio-paese e la precipitosa caduta dei bonus argentini in tutte le borse, provocati dai dazi imposti da Donald Trump al commercio mondiale.
Il presidenzialismo argentino (come accade con quasi tutte le versioni di questo sistema accentratore) non garantisce a priori un’ampia autonomia al potere giudiziario (vedi Montesquieu) di fronte a quello dell’esecutivo. Permettendo al capo dello stato di nominare 2/3 degli 11 membri della Corte, i quali devono però ottenere l’approvazione del Senato. Questa è mancata per i due candidati che avrebbero garantito a Milei il controllo dell’organo giudiziario incaricato proprio di garantire la piena costituzionalità delle leggi varate dal governo. Finora distintosi invece per forzare in forme aperte e permanenti i limiti della carta fondamentale dello stato, piegandoli ai propri interessi contingenti. Fino a sollevare sospetti d’irrevocabili intenzioni anticostituzionali anche nei partiti che finora lo hanno sostenuto. La frattura appare profonda non solo per il valore strategico dello specifico ambito istituzionale in cui è avvenuta; bensì anche perché accompagnata dalle divisioni che hanno portato allo scontro diretto nella battaglia elettorale in corso per l’amministrazione locale della capitale. In cui Mauricio Macri e il suo clan hanno la propria roccaforte politica, che Milei -in aperta sfida- vuole sottrargli una volta per tutte.
In politica, non è mai detta l’ultima parola. Gli sconvolgimenti internazionali in atto interagiscono tuttavia nelle diverse crisi da cui sono scaturiti e in Argentina rendono specialmente complicata l’iniziativa del suo presidente. Il quale ha appreso del sonoro rovescio subìto in Parlamento mentre tornava dalla Florida, dove era andato nella speranza poi delusa d’incontrare Trump e riceverne l’impegno ad accelerare la concessione dell’ulteriore e oneroso credito richiesto dall’Argentina al Fondo Monetario. Proprio l’urgenza argentina ad ottenere la disponibilità di alcune migliaia di milioni di dollari per far fronte ai rischi di default, spiega le resistenze dell’istituto finanziario di Washington a rinunciare alle corrispondenti garanzie. E’ il caso del cane affamato che si morde la coda. Come lascia intendere il peggio che controverso economista Domingo Cavallo: ”Il prestito è essenziale, ma non sostituisce il deficit di bilancio interno. Quel che la natura non dà, l’FMI non lo presta…”, sentenzia l’ex ministro di Carlos Menem, ben sapendo ciò che dice per averlo vissuto di persona. Era lui il responsabile dell’economia al momento del default, nel 2001.