80 anni dalla Liberazione, verso il 25 aprile 2025

“Cure” – di Kiyoshi Kurosawa

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Giappone, 1997. Con Kōji Yakusho, Masato Hagiwara, Anna Nakagawa.

Uscito in questi giorni nei cinema del nostro paese, a quasi 30 anni dalla sua realizzazione, l’opera del grande regista giapponese si pone come una pietra miliare nell’innovazione del genere thriller, visto da Kurosawa come occasione per analizzare la condizione umana, alla ricerca di un significato da dare al vuoto della propria esistenza. In particolare, “Cure” si pone come un thriller psicologico che esplora la natura della memoria, dell’identità e della violenza, utilizzando un ritmo lento e introspettivo che induce lo spettatore a riflettere sul senso della vita e della morte. La dimensione esistenziale del film si manifesta in vari modi, tra cui la rappresentazione dell’analisi della psiche umana e il contrasto tra il razionale e l’irrazionale. Al centro della narrazione c’è un misterioso assassino che compie omicidi senza apparente motivo, lasciando dietro di sé solo una voluta traccia di confusione. Il detective Takabe si trova coinvolto in una serie di omicidi, ma man mano che la storia si sviluppa, scopre che gli assassini sembrano non avere un’identità chiara, come se agissero senza una vera motivazione. Essi sembrano muoversi in modo meccanico, come se fossero privi di coscienza o di libero arbitrio, un elemento che ci fa riflettere su una delle componenti fondamentali dell’essere uomini. Questo accresce la sensazione di disorientamento del protagonista e dello spettatore, uniti, mirabilmente, dal cineasta giapponese in un unico destino. In questo senso, il personaggio di Mamiya, un uomo misterioso che sembra avere il potere di indurre gli altri a commettere crimini senza apparente motivazione, a metà tra la pratica del mesmerismo e dell’ipnosi, suggerisce l’idea che gli esseri umani possano essere manipolati o posseduti da qualcuno o qualcosa di estraneo a loro stessi. Kurosawa esplora, in maniera geniale, la fragilità dell’individuo e il modo in cui l’influenza esterna può annullare la sua autosufficienza. Mamiya è quasi un simbolo di ciò che non possiamo controllare dentro di noi, la parte oscura che può emergere senza preavviso, rendendo la nostra identità più malleabile e meno definita. Takabe è un uomo solitario, tanto simile a molti personaggi detective interpretati da Clint Eastwood, apparentemente incapace di trovare un senso nel suo lavoro e nella sua vita privata, segnata, tra l’altro, dalla schizofrenia della moglie. La sua alienazione è evidente non solo nelle interazioni con gli altri, che rimandano a molto Antonioni, ma anche nella sua percezione della realtà. La sensazione di impotenza di fronte a ciò che sta accadendo intorno a lui è un altro elemento che contribuisce al tema centrale del film: il destino dell’individuo sembra già segnato, e la capacità di agire o cambiare è limitata, se non addirittura illusoria.

Anche la violenza esibita nel film, sebbene agita in modo inspiegabile, non è mai gratuita, anzi sembra avere una valenza fortemente esistenziale, come nei film di Sam Peckinpah. L’omicidio non è solo un atto di prevaricazione fisica, ma anche un’azione che sembra rivelare la vacuità dell’esistenza stessa.

Il titolo del film, “Cure”, può essere visto, dunque, come un’ironica riflessione sulla ricerca di una soluzione a una crisi esistenziale che non può essere sanata. Nonostante l’apparente “cura” che i personaggi cercano, o a cui sono sottoposti, la loro condizione rimane irrisolta e irrimediabile. Il film suggerisce che non esistono risposte sufficienti alle domande umane più profonde: la solitudine, il significato della vita e la consapevolezza della propria morte sono questioni che non possono essere “guarite” ma soltanto affrontate. L’assenza di una spiegazione chiara degli eventi, la natura misteriosa degli omicidi, e l’impossibilità di fermare la spirale di violenza e angoscia, sono tutti elementi che riflettono una visione dell’esistenza in cui la ricerca di senso e la lotta per il controllo della propria vita sembrano essere destinati a fallire.

La grandezza del film di Kurosawa sta tutta nella capacità di meditare, in maniera ellittica ma mai chiusa, sulla fragilità dell’identità personale e sull’incapacità di sfuggire a inevitabili forze “prevaricanti”, siano esse i sentimenti interiori come i rapporti interrelazionali. Come in Tarkovskji e Tsai Ming-liang, dei quali nel sottofinale l’autore giapponese cita la presenza simbolica dell’acqua, e seppure su sentieri di analisi diversi, questa magnifica opera d’arte segna una tappa fondamentale nell’analisi della condizione umana e del senso della vita.


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