(Parigi). Giro di vite contro la stampa in Turchia che cerca di coprire la più grande mobilitazione popolare dai tempi di Gezi Park. Per la settima notte consecutiva, martedì 25 marzo, migliaia di persone si sono radunate davanti al municipio di Istanbul per protestare contro l’arresto di Ekrem Imamoglu, considerato il principale avversario politico del presidente Recep Tayyip Erdoğan. Le manifestazioni, scaturite dopo il blitz del 19 marzo, hanno raggiunto un’intensità che non si vedeva dai tempi di piazza Taksim nel 2013.
In questo contesto di crescente mobilitazione popolare, un tribunale di Istanbul ha disposto la detenzione di sette giornalisti, accusati di aver preso parte a raduni illegali. Tra loro figura anche Yasin Akgül, fotografo di Agence France-Presse (AFP), arrestato mentre documentava la protesta di martedì. “Decisione oltraggiosa”, l’ha definita il direttore generale dell’AFP, Fabrice Fries, invocando il “rilascio immediato” del fotoreporter. “Yasin Akgül non stava manifestando: stava semplicemente coprendo, in veste di giornalista, una delle tante dimostrazioni iniziate il 19 marzo”, ha spiegato Fries. Anche l’ONG Reporter Senza Frontiere, con sede a Parigi, ha condannato una misura definita “scandalosa, che riflette la grave situazione in atto in Turchia”.
“È la prima volta che giornalisti chiaramente identificati come tali, nell’esercizio delle loro funzioni, vengono arrestati sulla base di questa legge contro i raduni e le manifestazioni. Queste decisioni, che equiparano i professionisti dei media ai manifestanti, non solo dimostrano una spudorata malafede, ma evidenziano anche la grave interferenza delle autorità nel sistema giudiziario, al fine di imbavagliare i media. Questa drammatica escalation nella repressione della libertà di stampa deve finire. RSF invita le autorità a rilasciare immediatamente i giornalisti” ha detto Erol Onderoglu rappresentante di RSF in Turchia.
Secondo il ministero degli Interni turco, da quando sono iniziate le manifestazioni, 1.418 persone sono state arrestate con l’accusa di aver preso parte a proteste ritenute illegali, vietate dalla scorsa settimana nelle tre principali città del Paese: Istanbul, Ankara e Smirne.
Nella sola giornata di martedì, 979 manifestanti si trovavano ancora in custodia, mentre 478 erano stati trasferiti in tribunale. Il governatorato di Ankara ha rinnovato il divieto di manifestare fino al 1° aprile, mentre a Smirne è in vigore una misura analoga fino al 29 marzo. A Istanbul, nonostante il divieto, decine di migliaia di persone continuano a radunarsi ogni sera di fronte alla sede municipale, rispondendo all’appello del Partito Popolare Repubblicano (CHP), forza di opposizione che parla apertamente di “colpo di stato politico”.
La scintilla che ha acceso la protesta è stata l’arresto di Ekrem Imamoglu, sindaco di Istanbul e da poco designato candidato del CHP alle prossime elezioni presidenziali del 2028. Le accuse a suo carico ruotano intorno a presunti reati di “corruzione”. Il CHP respinge ogni addebito, sostenendo che dietro l’operazione ci sia la volontà di Erdoğan di eliminare un rivale scomodo. Le manifestazioni sono dilagate in almeno 55 delle 81 province turche, con una partecipazione che coinvolge in particolare giovani e studenti. Il presidente Erdoğan si è rivolto ai manifestanti, accusandoli di “atti di vandalismo” e affermando che, “se in un Paese occidentale aveste commesso un millesimo delle violenze fatte qui, le conseguenze sarebbero state molto più gravi”.
Gli ultimi avvenimenti hanno innescato la reazione della comunità internazionale. La presidenza francese ha esortato Ankara a “comportarsi come un grande partner democratico” e a rilasciare Imamoglu. Il Consiglio d’Europa ha condannato “l’uso sproporzionato della forza” nelle proteste, invitando le autorità turche a “rispettare i propri obblighi in materia di diritti umani”.