Dovrei parlare delle ragioni che ieri mi hanno portato a votare contro la risoluzione di riarmo per l’Europa, le medesime per le quali non scenderò in piazza il prossimo 15 marzo, nella grande manifestazione per la pace.
Invece voglio parlare del disagio, duro e profondo, che continua ad accompagnarmi quotidianamente nella mia attività politica, e ancor prima nella coscienza, dilaniata, ostinatamente fuori luogo in questo spazio che non so riconoscere, ma che avevo immaginato essere il cuore del diritto internazionale, e garante supremo di giustizia e di pace.
In questi giorni ho continuato a sentirmi in apprensione per la triste vicenda di Habashy, il calvario che ha vissuto sulla sua pelle. Vorrei convincermi che è per lui che ha un senso il mio ruolo qui, ma non posso non viverlo con un senso di colpa, per l’assurda pena che è stata inflitta a un uomo libero, liberato infine per morire e non più per vivere.
Farsi promotore di pace vuol dire per me convivere con queste amarezze, non tacere la propria coscienza: farmi carico di ingiustizie che sento intime quanto più riguardano ciascuno. Un piano di difesa per l’Europa esiste fuori dall’ossessione dei confini, lontano dagli assetti e dalle logiche bellicistiche degli Stati, dalle devastazioni che ciò produce, sconvolgendo il senso di ogni cosa: così che un povero diventa una scoria nel grande ingranaggio del capitale, un immigrato un criminale che oltraggia la patria, un dissidente una minaccia allo status quo, mentre un potente in grado di porre in essere la più grande distruzione possibile è salutato come uno strenuo sostenitore della pace.
Ecco, io vorrei non l’ambizione, ma il coraggio di sperare ancora per un significato autentico di Pace, ed esso non potrà esistere finché non si vorrà allo stesso tempo che sia anche piena, perpetua e planetaria.
(nella foto con Maysoon Majidi)