Se vengo uccisa in quanto donna, quello che si configura non è solo un omicidio ma un femminicidio. Troppo spesso ancora si sentono persone sottovalutare il problema che mercoledì 26 marzo 2025 ha toccato anche la cittadina di Spoleto nella quale vivo. Laura Papadia, 36 anni, è morta strangolata per mano del marito Gianluca Nicola Romita. L’uomo, dopo l’omicidio, ha effettuato diverse telefonate: al suo datore di lavoro, al 112 e alla sua ex moglie, confessando il suo gesto e di volersi per questo suicidare dal Ponte delle Torri. E’ stata quest’ultima ad allertare le forze dell’ordine che lo hanno poi raggiunto impedendogli di farla finita. Interrogato è stato trasferito in carcere. La procura di Spoleto, guidata dal dottor Claudio Cicchella, sta ora mettendo al vaglio le ipotesi di reato (Romita dovrà rispondere di omicidio volontario). Qualunque movente si accerterà dalle indagini ancora in corso una tale condotta resta inaudita.
E’ accaduto vicino casa ma non per questo è più grave, è però un fenomeno – si legge “ennesimo”, perchè ripetuto nel tempo – sistemico che quindi ormai appartiene ad ognuno di noi.
Laura è la settimana vittima di femminicidio dall’inizio dell’anno e non è un voler fare esposizione mediatica se continuiamo a chiamare questi fatti con il loro nome. Li chiamiamo femminicidi perché sono atti violenti e deliberati contro le donne, in quanto donne.
Se vengo uccisa perché il mio aguzzino crede di poter esercitare su di me un controllo che di per sé è già un abuso, è un femminicidio.
Se vengo uccisa perché il mio assassino non è capace di accettare un rifiuto, non gestisce le sue emozioni di rabbia e frustrazione riversandole su di me perché, in quanto donna e quindi subalterna a lui pensa di poter dominare, è un femminicidio.
Prima del punto di non ritorno c’è la denuncia, sì, ci sono le forze dell’ordine, l’inestimabile lavoro dei centri antiviolenza, ci sono le istituzioni, i tribunali, gli psicologi, gli assistenti sociali quando vi siano coinvolti anche minori, il lento ingranaggio della giustizia.
Prima del punto di non ritorno c’è però anche la cultura radicata e patriarcale, il giudizio altrui, il rispetto per l’altro, ci dovrebbe essere l’educazione sessuo-affettiva nelle scuole (i cui fondi ricordiamo il governo Meloni ha destinato alla formazione sull’infertilità), zero indulgenza verso molestie e comportamenti sessisti e misogini.
Se vengo uccisa perché me la sono cercata, perché ho permesso troppo, perché un No poteva essere un Sì, perché resto vittima di uno stereotipo prima ancora che del carnefice e poi della società perché potevo denunciare prima, perché potevo andarmene prima, perché non era facile, è una violenza (che ricordiamo ha diverse facce e non tutte lasciano lividi come quella economica e quella psicologica, ad esempio), è un femminicidio.
Mercoledì è accaduto vicino casa e Spoleto è sconvolta: lutto cittadino, minuto di silenzio, fiaccolata, indignazione, presa di coscienza. Accade troppo spesso ma non è la normalità: va contro la Convenzione di Istanbul, va contro la dignità umana e non è tollerabile che accada ancora.