80 anni dalla Liberazione, verso il 25 aprile 2025

Riprende dal CPR di Torino il galoppo di libertà di Marco Cavallo

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Era il gennaio 1973 quando nel manicomio di San Giovanni, nella periferia di Trieste, era da poco nata la prima cooperativa. Basaglia aveva messo a disposizione a degli artisti uno dei primi reparti vuoti dando inizio a un singolare laboratorio. Angelina, un’assistita, aveva disegnato un cavallo; diceva che si chiamava Marco, come il cavallo che portava su e giù per San Giovanni il carretto della biancheria sporca e che, ormai vecchio, stava per essere mandato al macello.

È così che è nato Marco Cavallo, azzurro come il cielo e il mare, il colore della libertà. Per cogliere oggi il senso della presenza di Marco Cavallo basti pensare alla tragica oscenità dei reparti psichiatrici che ancora segnano dolorosamente il mondo con le porte blindate, i letti di contenzione, le persone abbandonate, l’impiego massiccio e irrazionale dei farmaci, le solitudini, gli abbandoni…

Quando il cavallo azzurro lasciò il ghetto centinaia di internati lo seguirono. Per poter uscire doveva abbattere i muri a partire da quelli fisici: costruito all’interno dell’edificio, per i suoi 4 metri di altezza fu fatto “evadere” sfondando alcune porte e un architrave, permettendo così la rottura anche del muro simbolico fra il “dentro” e il “fuori”.

Marco Cavallo non è pertanto una semplice “statua”, come definito da qualcuno in questi ultimi giorni, ma un simbolo vivo e vivificante della lotta alle istituzioni totali e alle pesanti sofferenze che esse hanno ingiustamente creato – e continuano a farlo – nella vita di tanti uomini e donne, togliendo loro umani rispetto e dignità. È così cominciato nel tempo il suo viaggio nelle carceri, negli ospedali psichiatrici, nei campi profughi, nelle scuole, negli ospizi… E ora è il momento della sua presenza nei Centri italiani di Permanenza per i Rimpatri.

Da qualche giorno la sua andatura al galoppo è ripresa in una staffetta la cui prima, pacifica tappa, il 22 marzo scorso, l’ha visto a Torino in corso Brunelleschi, davanti al CPR rimasto chiuso dal 2023 dopo che alcuni locali erano stati incendiati da alcuni migranti trattenuti nella struttura. Il 24 marzo scorso la riapertura, purtroppo accompagnata da tensioni e proteste con scontri e feriti: eventi ingiustificabili e condannabili, che mai vorremmo si ripetessero, perché è la nonviolenza attiva l’unica strada per ottenere diritti e rispetto duraturi.

Tuttavia i CPR rimangono – a detta di Nicola Cocco, medico e attivista della Rete “Mai più lager – No ai CPR” – “tra gli istituti più violenti e pericolosi del Paese”. Senza mezzi termini e senza paura di dover giustificare parole così pesanti, li definisce proprio “lager”, facendo riferimento a Franco Basaglia quando, da direttore del manicomio di Gorizia vi entrò per la prima volta dicendo proprio così: “Questo è un lager”. E prosegue: “Nel visitare per la prima volta il CPR di Milano ho avuto lo stesso senso di ripulsa nei confronti di un luogo che avvertivo come pericoloso dal punto di vista della salute. Un luogo che ha delle caratteristiche di degrado, sofferenza e abbandono che vanno al di là del nostro consesso civile, che rimanda a luoghi altri: sporcizia, assenza di ogni strumento che possa garantire la privacy; sia i bagni che le docce non hanno le porte, perché potrebbero essere utilizzate per gesti autolesivi o per le risse e quant’altro;… la patogenicità del luogo sta proprio nel suo essere strutturato come un ambiente opprimente e vuoto dove, anche se uno sta bene, si ammala”.

Questo regime di privazione ha sulle persone recluse degli effetti devastanti da un punto di vista psicologico e sanitario: spesso nelle strutture scoppiano epidemie infettive e dermatologiche, le condizioni di salute si aggravano come anche quelle psicologiche (è un caso che più di qualche accolto presenti problemi di salute mentale?), con vere e proprie crisi di autolesionismo diffuso, abuso di farmaci, tentati e, purtroppo, avvenuti suicidi. Ne sappiamo qualcosa anche nella nostra regione. Un luogo in cui “le persone sono trattenute in un regime di detenzione che sarà pure amministrativo, ma resta un regime che produce sofferenza, degrado e abbandono: una vera e propria deriva manicomiale”.

Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, già un lustro fa descriveva la detenzione amministrativa con delle lucide pennellate: “un meccanismo di marginalità sociale, confino e sottrazione temporanea allo sguardo della collettività di persone che le Autorità non intendono includere, ma che al tempo stesso non riescono nemmeno ad allontanare. (…) Come se l’individuo smettesse di essere persona con una propria totalità umana da preservare nella sua intrinseca dignità, dimensione sociale, culturale, relazionale e religiosa per essere ridotta esclusivamente a corpo da trattenere e confinare”.

Sulla medesima lunghezza d’onda il card. Repole che, commentando la riapertura dopo due anni del CPR della Mole, ha stigmatizzato il fatto che una città come Torino “torni a rispondere, con il trattenimento in struttura e la privazione della libertà, a uomini che sono venuti nel nostro Paese in cerca di speranza per un futuro migliore. Comunque si voglia valutare la questione migratoria e riconoscendo che non è facile gestirla, non possiamo rassegnarci a rinchiudere chi non ha commesso reati e a non cercare invece percorsi per favorire la regolarizzazione e l’inserimento delle persone nella nostra società”. Facendo autocritica, ha poi proposto di “cercare alternative insieme, istituzioni nazionali e locali”. Alternative come parola chiave, perché è vero che non ci sono luoghi di presa in carico per queste persone, se non – come le chiamava Bauman – altre discariche sociali, prima fra tutte il carcere.

Nel frattempo il pastore della Chiesa torinese ha chiesto “con trepidazione” alla città “di vigilare perché nel Centro di corso Brunelleschi vengano garantite le condizioni di rispetto della dignità per ogni essere umano evitando condizioni di degrado e di abbandono, come è avvenuto nel passato di questa struttura”.

Marco Cavallo continua dunque a galoppare, ora nei CPR per parlare anche da lì di libertà e di dignità, si batte potente e coraggioso contro l’esclusione, le diseguaglianze, i potenti, le porte chiuse, i reticolati e i confini insormontabili che i migranti si trovano a far fronte quotidianamente. E noi a Marco Cavallo saliremo in tanti in groppa per tentare di cambiare quelle narrative, che permettono di legittimare violenze umanamente inaccettabili, e portare il contributo di un concreto e umanizzante messaggio di accoglienza e di liberazione.


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