“Mare fuori” è una fiction che non sarebbe neanche dovuta esistere. Ce n’è voluto, infatti, di impegno per convincere la RAI a puntare su una serie così complessa, dalle tematiche urticanti, scabrosa, irriverente, folle e, soprattutto, non in sintonia con lo spirito dei tempi. Malignamente, ci vien da dire che se gli autori sono riusciti nell’impresa è perché, quando è stata lanciata, c’era ancora un governo che, in qualche modo, credeva nella redenzione, nel riscatto, nella rieducazione e nella possibilità di offrire una seconda occasione a chi ha sbagliato. Oggi, probabilmente, la richiesta non sarebbe stata accolta e il progetto sarebbe finito a impolverarsi in un cassetto: se non succede, è perché nel frattempo “Mare fuori”, con la sua sigla iconica, le sue storie struggenti, la passione civile che è in grado di sprigionare e il seguito che ha ottenuto in particolare fra i giovanissimi, è diventata imprescindibile per l’azienda. E così, eccoci alla quinta stagione, diretta da Ludovico De Martino. È la stagione degli addii e dei rimpianti, della solitudine di Rosa Ricci e dell’arrivo di nuovi personaggi, del dolore e della sofferenza, più marcati rispetto alle edizioni dirette da Ivan Silvestrini, quasi un ritorno alle origini, quando Carmine Elia ebbe il merito di radunare un gruppo di attrici e attori per lo più alle prime armi e di renderli una comunità. Ecco la parola magica: comunità. Perché anche dietro le sbarre, in un luogo votato all’isolamento e all’espiazione della pena, anche lì, soprattutto lì, secondo l’articolo 27 della nostra Costituzione, oggi drammaticamente dimenticato, potrebbe e dovrebbe nascere quel sentimento di unione che solo può consentire il riscatto degli ultimi e degli esclusi. Non accade, ahinoi: “Mare fuori” è l’antitesi della realtà e proprio per questo la amiamo così tanto. Ci piace perché è realistica nei contenuti ma non ha nulla a che spartire con lo spirito del tempo: un tempo segnato dalla violenza, dalla furia, dalla repressione feroce, dai decreti inventati ad arte per riempire le carceri minorili di poveri diavoli che non trovano alcun riscatto; un tempo in cui la gentilezza è diventata la virtù dei fessi e degli ingenui e la furia la fa da padrona. La seconda opportunità, ribadiamo, il ritorno in società migliori di come si era prima, la riscossa, l’acquisizione di conoscenze, l’imparare un mestiere onesto, il rilanciarsi, il non subire lo stigma del reietto, l’essere diversi rispetto a un passato difficile, l’inclusione, l’ascolto e l’accoglienza: tutto ciò che manca nella società lo si trova in questa serie, non a caso, come detto, amatissima da chi maggiormente si sente escluso e inascoltato da un universo di adulti immaturi, il più delle volte intenti unicamente a esaltare il proprio ego.
Se dovessimo spiegare il segreto di un successo che dura nel tempo e, anzi, si rafforza, oltre all’abilità degli sceneggiatori, lo cercheremmo qui: nell’aver fornito un supporto psicologico a chi non l’ha trovato là dove avrebbe dovuto trovarlo, a scuola e in famiglia, per non parlare della politica e di corpi intermedi ormai pressoché assenti o, comunque, screditati.
“Mare fuori”, fin dalla prima stagione, mi è sempre sembrata una seduta psichiatrica, una terapia di gruppo, un momento catartico, un vaffa gridato al mondo indifferente, una lucida pazzia, una scommessa vinta e la sconfitta dei malvagi. E non perché sia “buonista”, aggettivo che andrebbe espunto dal vocabolario, ma perché dice no: no alla contemporaneità, no a ciò che siamo diventati, no a stereotipi e pregiudizi, no alle sentenze già scritte, no alla presunta superiorità dei salvati a scapito dei sommersi; insomma, un no corale e bellissimo all’abisso nel quale siamo sprofondati.
Non fa eccezione questo quinto atto, in cui vengono meno personaggi amatissimi come Carmine Di Salvo (Massimiliano Caiazzo) ed Edoardo Conte (Matteo Paolillo) e ne entrano di nuovi: Tommaso, il nuovo “chiattillo”, roso dalla rabbia e dalla sete di vendetta, due spacciatori venuti dal Nord a sconvolgere gli equilibri dell’IPM, l’enigmatico Simone Caramitti e Marta e Sonia, due ragazze fragili e problematiche che vivono e agiscono in simbiosi. Un ricambio notevole, dunque, una piccola rivoluzione, un punto d’arrivo che è anche una nuova partenza, come del resto le vite che descrive: sfasate, assurde, già vissute a neanche vent’anni, un fiume in piena, una tempesta, un costante addio, un tentativo di farcela, mille ostacoli, altri errori e, in qualche caso, la speranza, più forte dell’orrore e dell’ambiente tossico nel quale sono state costrette a muoversi fin dall’infanzia.
“Mare fuori” ci piace, fin dall’inizio, perché ci mostra come potremmo essere e invece, per populismo e demagogia diffusi, abbiamo scelto di non essere, con le conseguenze che sono sotto gli occhi di chiunque.