80 anni dalla Liberazione, verso il 25 aprile 2025

L’Occhio della Gallina sa guardare lontano. Conversazione con Antonietta De Lillo

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L’ Occhio della Gallina, di Antonietta De Lillo, è un film che spinge la comunità, non soltanto cinematografica, a cercare e creare nuovi modelli culturali; mette in luce i meccanismi del Potere e della Giustizia, laddove la vicenda processuale della De Lillo non è al servizio del superamento di un dolore personale, ma è esemplificativa di un sistema vecchio e incapace di nuovi slanci. È la storia di una regista che si mette al servizio di tutti e di ciascuno. L’Occhio della Gallina è un film sul cinema e sui meccanismi di un sistema di prevaricazione del potere.

Ciò non toglie che i paradossi della contemporaneità non portino buoni frutti: oltre a essere finalista ai David di Donatello, il prossimo 25 marzo L’occhio della gallina sarà presentato al Bari International Film & Tv Festival e Antonietta De Lillo riceverà il Premio per il Cinema Indipendente dedicato al regista Nico Cirasola.

Sinossi- L’Occhio della Gallina è l’autoritratto cinematografico della regista Antonietta De Lillo, relegata ai margini dell’industria cinematografica dopo un contenzioso giudiziario legato alla distribuzione del suo film di maggior successo, che avrebbe potuto consacrarla al grande pubblico. La storia della vita pubblica e privata della protagonista, attraverso interviste, ricostruzioni e archivi personali, cinematografici e televisivi, mostra le difficoltà di chi va controcorrente e la creatività e la resistenza necessarie a reinventarsi con i mezzi a propria disposizione. Il film è un racconto che suggerisce metodi per superare l’isolamento celebrando il cinema nel suo ruolo comunitario, culturale e politico.

Antonietta De Lillo, dunque, ci mette di fronte a un Castello burocratico inevitabilmente frammentario e farraginoso, ma soprattutto ci accompagna in una riflessione culturale che aspira a un bene comune da ricostruire, con ironia e intelligenza. L’intervista che segue rivela la gioia e la fatica e le contraddizioni di quanto sin qui solo accennato.

Perché ha voluto realizzare L’Occhio della Gallina?

Nella mia vita ho incontrato il cinema per amore e ho continuato a farlo perché è una delle poche forme d’arte collettiva. Mentre pensavo a come costruire il film, ho ipotizzato potesse interpretare la mia storia un’attrice, un’altra persona che non fossi io. Mino Capuano, poi, mio aiuto regista, ha lanciato l’idea di farmi rappresentare da una gallina. Ho pensato subito che fosse una bella suggestione, per due motivi: innanzitutto, perché la gallina rappresenta un mio ricordo di bambina, che la dice lunga su chi ero e su chi sono oggi. Mi spiego: da bambina avevo quasi paura delle mie emozioni e dei miei sensi perché erano portati a un volume, a un livello superiori rispetto alle mie capacità di controllarli. Insomma, ero convinta che la vita mi avrebbe sopraffatta e che sarei morta presto. Nel film racconto il mio primo incontro con una gallina quando vidi che chiudeva gli occhi al contrario. Non pensai che fosse una caratteristica comune a tutte le galline, ma che stessi impazzendo. Questa esperienza mi servì per adattarmi alla vita e guardare con occhi diversi me stessa e il mondo, cosa che poi feci attraverso il cinema. C’ è anche da dire che la mia passione per la gallina nasce dal fatto che è un animale molto intelligente e pieno di virtù.
In questi anni di vicissitudini personali e giudiziarie ho fatto un profondo lavoro di riflessione su cosa è il cinema e su cosa voglia dire raccontare storie. E ho preso sempre più consapevolezza di quanto può incidere l’arte e la cultura nella formazione del nostro Paese.

Questo film è, dunque, una necessità etica e caratteriale?

Devo dire di sì, nel senso che di fronte all’ingiustizia credo di reagire senza chiedermi se sia più opportuno combatterla o meno. Con Il Resto di Niente (2004) sono inciampata nell’ingiustizia, non mi era mai successo prima. Fino ad allora avevo fatto dei film, avevo una mia casa di produzione. Con questo film, invece, inciampo nel sistema cinema: venivo da Napoli, dove avevo fatto un percorso, lungo già vent’anni, con altri cineasti e collaboratori: crescevamo insieme e ci aiutavamo a vicenda. Dopo il successo di Il Resto di Niente al Festival di Venezia, mi imbatto in qualcosa che davvero mi era estraneo, a partire da un’incongruenza evidente: il film era stato accolto molto bene da critica e pubblico al Festival di Venezia, ma era stato abbandonato come se non fosse stato finanziato con soldi pubblici e non fosse costato fatica a me come a tutti coloro che vi avevano lavorato. Da questa incongruenza, ho pensato fosse giusto difendere il film e mi sono scontrata con un sistema che con il passare degli anni sta diventando sempre più diffuso, che crea un impoverimento culturale ed economico non solo nel cinema, ma in tutti i settori della nostra società. Ho avuto l’ardire di dire pubblicamente che c’era stata un’ingiustizia e sono stata cacciata dal Paradiso terrestre, ma questo accade ogni giorno, in qualsiasi ambiente di lavoro. Ho capito che non era un fatto personale, nessuno ce l’aveva con me, ho subito un’ingiustizia che ha riguardato me ma poteva riguardare chiunque.

Quello giudiziario è stato l’unico strumento che ho avuto per cercare giustizia, ma non ho mai pensato che da solo fosse risolutivo, e ho sempre cercato anche la via della conciliazione e del dialogo. Avrei preferito avere attorno a me associazioni e persone che, invece di far finta di nulla, si assumessero la responsabilità di contrastare il sistema cinematografico, basato sull’arroganza del potere, a partire dal mio “caso”. Ed ecco L’ Occhio della Gallina: la realtà è rovesciata rispetto a come dovrebbe essere. D’altra parte le cose per fortuna oggi stanno cambiando a livello associativo, ed è più evidente che l’ingiustizia contro il singolo è un’ingiustizia contro tutti.


Questo film ha permesso il salto dal dolore personale alla diffusione di questa vicenda alla collettività. Una parte del cinema italiano ha visto invece questo film come un pretesto per continuare a evitare di assumersi la responsabilità di una causa personale spacciandola come causa comune. Come risponde a queste critiche?

Sapevo perfettamente i rischi di critica, ma l’alternativa era quella di non realizzare il film: tra il non rendere pubblica una storia d’interesse collettivo e il rischio di un preconcetto, ho preferito l’eventualità di essere criticata. Nel “personaggio” de L’ Occhio della Gallina penso che possano riconoscersi molte persone: dopo le proiezioni colleghi registi, ma anche spettatori che non lavorano nel cinema, si sono sentiti toccati in qualche modo da questa storia di ingiustizia, inadeguatezza e prevaricazione. Ovviamente i detrattori, in buona fede e non, ci sono sempre.

Come tutte le persone ai margini, serve autodeterminarsi, oppure si viene cancellati dalla storia e condannati all’oblio. Quando una cosa non è giusta si deve dire e bisogna assumersi la responsabilità di affrontarla.

Fare attenzione agli altri, in questo momento storico, è l’unica via d’uscita verso un’esistenza che sia il più possibile autentica. I meccanismi di prevaricazione nascono dalle piccole azioni e la somma delle piccole azioni diventa una prevaricazione collettiva. Penso che conoscere la mia storia faccia bene a chi la guarda e non solo a me. Questo film ha uno scopo primario: condividere la mia esperienza personale rendendola un’esperienza collettiva.

Pensa che sia stato compreso questo tentativo politico attraverso la sua storia personale?

Il mio cinema purtroppo non incide fuori dal piccolo mondo cinematografico, questa possibilità mi è stata negata. Ma i pochi spettatori fuori dal nostro mondo che hanno visto L’ Occhio della Gallina lo hanno guardato con molta più libertà e con molti meno sensi di colpa rispetto a chi fa cinema.


L’ Occhio della Gallina
ha preso soldi di Stato per essere realizzato?

La Legge Franceschini ha fatto sì che pochissime società di grandi dimensioni avessero dallo Stato milioni e milioni di finanziamenti: quello che rimane dei soldi di Stato per il resto del cinema sono solo scarne ossa di una gallina. Il riconoscimento automatico di denaro pubblico viene inevitabilmente concesso in larga parte a film che incassano molti soldi, una piccola parte ai film che ottengono riconoscimenti artistici importanti come la partecipazione a grandi Festival nazionali e internazionali. Come nel caso de Il Signor Rotpeter (2017), che venne selezionato fuori concorso al Festival di Venezia, dandomi meccanicamente accesso a fondi “automatici” da utilizzare per il film successivo. Dunque, è sotto gli occhi di tutti che anche L’ Occhio della Gallina ha ricevuto i soldi dallo Stato, ma a seguito di un automatismo ministeriale. Devo aggiungere che, nel tentativo di chiudere l’iter burocratico di ricezione di questi fondi automatici, il Ministero si mostra fortemente ostativo e cavilloso verso i miei lavori, impedendo di ottenere ad oggi l’intera somma che deve alla marechiarofilm, la casa di produzione da me fondata, e parliamo di cifre bassissime. Vorrei precisare, inoltre, che L’ Occhio della Gallina è costato complessivamente 200.000 euro,e il mio compenso, per i tre anni di lavoro necessari per realizzarlo, è stato all’incirca di tremila euro. In 20 anni ho certamente chiesto i fondi “selettivi”, i finanziamenti destinati a opere ritenute meritevoli secondo una commissione nominata dal Ministero, per tutti i miei film e per tutti i progetti della marechiarofilm, e non ho mai preso un centesimo, ad eccezione de Il Signor Rotpeter che dopo la selezione a Venezia ha ottenuto venticinquemila euro di selettivi per la produzione e diecimila per la distribuzione che non siamo mai riusciti a prendere perché il Ministero non ha mai dato seguito alle nostre mail e comunicazioni. I selettivi, anche se incidono molto meno degli automatici poiché costituiscono solo il 20% circa dell’intero fondo unico per lo spettacolo annuale, anche se ora la percentuale è leggermente aumentata, sono determinanti per la realizzazione di film liberi e indipendenti, visto che nello specifico vengono elargiti alle opere ritenute “d’ interesse culturale”. L’80% del budget totale, invece, viene elargito solo ai pochi film che ottengono il tax credit o gli automatici. Paradossalmente, nella situazione attuale, sono i film a maggiore budget e più mainstream a prendere più soldi statali. Ad esempio, per il mio progetto del Film Partecipato, che pure ha vinto un Nastro d’Argento e ha la vocazione di aiutare molti giovani autori, non ho ricevuto alcun riconoscimento dal Ministero della Cultura. Certo, mi si può chiedere perché io debba fare film con i soldi dello Stato. Mi dispiace contraddire i registi che affermano di non prendere un soldo statale per realizzare i loro, ma vorrei fosse chiaro che tutti i film distribuiti in Italia sono fatti con soldi di Stato, in forme diverse, come ho spiegato, ma qualsiasi film italiano riceve fondi, sia pur minimi, dal Ministero della Cultura. Le azioni di prepotenza del Sistema non disturbano soltanto me, io vivo anche senza fare film, ma oscurano un problema più grande e paralizzano l’intera ricerca che sta prima del discorso economico, e cioè la costruzione di modelli culturali. Per quanto mi riguarda, i soldi statali che ho ottenuto mi sono stati concessi al di là della volontà dello Stato e solamente rispettando le regole imposte dallo Stato stesso.

Diciamo che “spersonalizzare” la storia personale di Antonietta De Lillo – con tutto ciò che comporta la fatica materiale e morale di affrontare una vicenda giudiziaria lunga 20 anni – è un percorso difficile da raggiungere, soprattutto difficile da far comprendere a un mondo estremamente distratto.

Quando esco dall’ambito cinematografico, scopro un meccanismo di empatia verso la mia vicenda giudiziaria maggiore. Nella quotidianità del mondo reale, le persone subiscono ingiustizie enormi, per lo più taciute. Dopo le varie proiezioni del mio film, ho potuto constatare che gli spettatori sentono che sia stata raccontata una storia simile a quella che subiscono nel mondo del lavoro, delle relazioni, della intimità domestica. Ecco, questo è un traguardo politico, culturale, sociale che era alla base di questo film. Spesso invece, quando ascolto le belle parole delle persone che si occupano di cinema (dai registi, ai giornalisti, ai critici), sento che ciascuno di loro guarda il film non soltanto come se fosse qualcosa di assolutamente lontano dalla propria vita, ma con un’immagine distorta. Molti mi invitano, ora che ho reso pubblica la mia esperienza, a fare un nuovo film di finzione. Ciò dimostra che tante persone del cinema non conoscono il mio lavoro: da 20 anni faccio film documentari ma ogni volta che propongo un progetto di fiction vengo ostacolata in ogni modo. In ogni caso in questi anni non mi sono lasciata abbattere: ho aperto una casa di produzione, ho inventato il Film Partecipato, ho collaborato con colleghi e giovani portando avanti un’idea libera di cinema, facendolo praticamente. Tutto ciò sfugge ai più. Certo, vorrei anche fare un film di finzione, ma non ce la faccio da sola, ho lavorato e lavoro con le risorse che ho, senza mai arrendermi.


D’altra parte, comunque, L’ Occhio della Gallina è entrato nella sezione documentari per i David di Donatello. Perché, secondo lei, nonostante la diffidenza e i pregiudizi generali un premio istituzionale e ampiamente riconosciuto ha voluto il suo film?

Il mondo nel quale viviamo è rappresentato in modo schematico, senza sfumature. Al di là di questo, non tutti vivono di preconcetti e liberamente è stato scelto di riconoscere questo film degno di entrare in diversi concorsi. Girando l’Italia con L’ Occhio della Gallina ho trovato delle persone migliori di quelle che vedo e sento sui media, e i loro feedback mi restituiscono la ragione profonda per cui faccio questo mestiere e la funzione vitale della cultura. Come l’acqua, le storie si infiltrano nella realtà, entrano e creano delle connessioni inaspettate. Io non ho mai voluto smettere di fare il mio mestiere. Ho sempre fatto cinema. E per migliorare le cose bisogna farlo dall’interno: per cambiare alcuni sistemi di potere, per smascherarli, per mostrarli, bisogna conoscerli. Ed ecco perché ho continuato, continuo e continuerò a fare cinema. Perché vorrei che io e tutto il mio mondo fossimo in grado di migliorare lo stato delle cose. D’altra parte, l’ingresso del film nella lista dei David, che devo a una commissione che non posso che ringraziare per l’apprezzamento dimostratomi, ha fatto sì che anche chi non lo aveva visto, non foss’altro per curiosità, abbia aperto il link e gli abbia dato almeno un’occhiata: la commissione che prepara, organizza, seleziona, decide i film per i David di Donatello è composta da 1800 persone, sono tante. Tornando quindi alla metafora dell’acqua, penso che il film si sia infiltrato nelle spaccature di questo mondo e abbia toccato dei nervi scoperti.


Come hanno reagito gli Istituti di Stato che denuncia in questo film? I rappresentanti di Rai, Istituto Luce, Cinecittà, Ministero della Cultura, hanno partecipato alle proiezioni del film?

Sono convinta che lo abbiano visto in tanti: bisogna inviare il film a molti comparti istituzionali prima che venga approvata la visione in pubblico, e ho l’impressione che sia stato visto da molte più persone di quante si siano mostrate alle presentazioni. Vorrei fare una precisazione. I vertici delle Istituzioni di Stato del Cinema italiano non cambiano da almeno 15 anni, il che significa che a gestire il potere nel cinema sono sempre le stesse persone. Questa immobilità, questa rigidità di posizioni a mio avviso hanno creato e stanno creando una situazione stagnante nel cinema. Sono in tanti a credere che la Legge Franceschini abbia creato delle disuguaglianze, ma sono in pochi ad aver espresso apertamente questo pensiero. Questo sistema si alimenta del silenzio e dell’autocensura di molti. Si tratta di una legge che ha agevolato in maniera molto evidente i pochi grandi gruppi di produttori italiani poi venduti alle multinazionali straniere, creando un abbraccio a mio avviso dannoso tra cultura e mondo della finanza che ha penalizzato la pluralità delle offerte culturali cancellando l’interesse culturale dalla legge. Anche i correttivi, fino a oggi, hanno lavorato nelle stessa direzione. Chi è nel sistema e non ha espresso alcuna critica continua a ripetere che il cinema italiano sta bene e gode di buona salute; chi è stato radiato, o chi si è allontanato dal sistema istituzionale, dice che il cinema sta malissimo. Ovviamente la realtà sta nel mezzo, ma la guerra tra Guelfi e Ghibellini si acuisce, creando una confusione tale che nessuno più ha torti e ragioni precise. Il sistema cinematografico italiano è generalmente bloccato, per motivi economici, per problemi legislativi, per mille altri motivi. Mi piacerebbe che L’ Occhio della Gallina fosse uno degli strumenti in grado di coinvolgere il mondo del cinema nel trovare una strada comune verso il cambiamento. Il cinema italiano risente di tutte le piaghe e di tutti i difetti dell’intero assetto socioeconomico nel quale viviamo. E io, conoscendo il mio mondo, posso dire sinceramente che negli anni si è radicato un atteggiamento molto pericoloso: il cinema italiano, nel suo complesso, non ha più fiducia in se stesso. Le persone che si occupano di cinema, ciascuno nel proprio mestiere, non tengono più in considerazione il fatto che ciascuno di noi contribuisce a creare sistemi culturali. Questo vale tanto per il cinema impegnato quanto per il cinema commerciale. Perché sappiamo bene che i modelli culturali non li crea soltanto il cinema d’autore, ma anche (forse soprattutto) il cinema commerciale. Il problema, dunque, è concentrarsi su quale modello culturale stiamo proponendo. Vedo che siamo tutti piuttosto disarmati. Non sappiamo davvero cosa fare, al di là dei nostri singoli film che non creano comunità di pensiero. I pregiudizi di chi non sta costruendo insieme alla propria comunità dei modelli culturali chiari, hanno preso il sopravvento sulla ricerca comune, collettiva, propositiva. Il film è una denuncia: certamente è una denuncia politica, ma è anche la denuncia della necessità di una riflessione comune, collettiva. Riprendiamoci il potere di riconoscere di avere un “occhio magico”, quello del cinema, L’ Occhio della Gallina, con la consapevolezza di avere un ruolo e uno scopo preciso, quello di proporre e di creare modelli culturali, e non è cosa da poco. Mi pare che ci sia una tendenza molto pericolosa nel cinema italiano, c’è la sotterranea tentazione di diffondere sfiducia. E così, invece di vedere il mio film come un positivo e propositivo invito a diffondere fiducia e a costruire un percorso comune, si preferisce liquidarlo come uno sfogo personale.


Beh, va detto che il film è esteticamente molto bello: la storia personale, i documenti di repertorio, i filmini familiari, che si intrecciano con l’intricata e lunghissima vicenda giudiziaria che a sua volta si intreccia con il racconto di tutto il suo percorso artistico sin dagli esordi, rendono questo film non soltanto molto ben congegnato, ma anche molto riuscito esteticamente. D’altra parte, è un po’ seccante fare la domanda che sto per farle, ma c’è da dire che la frase di Maria De Medeiros, nel film: “Se sei donna non basta che tu racconti una storia interessante, lo devi fare anche molto bene”, è tanto semplice quanto vera. Che ne pensa?

Penso che tutti sappiamo che è come dice Maria De Medeiros: questa semplice affermazione passa per essere una battuta di spirito, ma in realtà è esattamente così. Penso ci siano ancora tante cose da cambiare per raggiungere una parità di diritti e anche culturale. Per quanto riguarda il fatto di aver realizzato un film bello, devo ammettere che ci ho provato e che non è certo stato facile. Ho faticato moltissimo per dare un assetto generale che fosse fluido e armonioso, dove tutto si tenesse insieme con serietà, ma anche con ironia e delicatezza. Sin dalla scrittura, ho trattato me stessa come fossi un personaggio: ho messo la mia vita al servizio di una storia e non certo il contrario. C’è stato un percorso preciso che ho dato a questo film: non ho raccontato la mia vita, ho scelto i frammenti che potessero servire a raccontare la storia.

Antonietta De Lillo si sente più Cassandra, Don Chisciotte, Giovanna D’arco oppure una semplice portatrice di giustizia e libertà?

Essere Cassandra mi fa un po’ paura, a dire il vero. Alla mia età mi sono acquietata, ho capito che quelle percezioni, intuizioni, emozioni e preveggenze che avevo da bambina e da ragazza non sono più preponderanti nella mia vita. Non ho più l’ossessione di guardare e di capire tutto, mi concedo il lusso di distrarmi, di guardare le cose dall’alto, posso finalmente rilassarmi. Ho superato le tempeste di Cassandra. Giovanna D’Arco mi assomiglia perché ho fede, intesa come possibilità di credere che troverò il modo, la strada, la capacità di fare ciò che credo giusto fare. So per certo, dentro di me, che se mi muovo l’inaspettato accadrà, e mi riferisco ad un inaspettato buono, positivo, costruttivo. L’immobilità, al contrario, mi ucciderà. Credo che questa fede venga dalla mia profonda napoletanità, dal mio essere legata in modo ancestrale a una cultura di rappresentazione e di realtà sempre intrecciate. Don Chisciotte mi piace assai come personaggio. Se assomigliargli significa pensare di fare tutto quello che è in mio potere affinché domani sia meglio di oggi, allora sì, resto simile a questo straordinario personaggio della letteratura mondiale moderna. Questa convinzione voglio tutelarla, voglio tenerla viva. Ho la consapevolezza che la via d’uscita c’è sempre; ho fiducia perché non voglio smettere di pensare che ci sarà sempre qualcuno intorno a me che mi darà una mano al momento giusto.

Ho cercato, sin qui, di eludere una domanda che però credo sia inevitabile: cosa significa per lei essere una regista donna, oggi, in questo Paese; una regista sulla quale un potere sostanzialmente maschile (lo dicono i numeri) ha potuto combattere con tutte le ovvietà e i luoghi comuni di avere di fronte una donna?

Per quanto mi riguarda, la differenza di genere non mi ha mai spaventato, anzi: ho sempre pensato alle persone, mai al loro essere maschi o femmine, e comunque pensavo che le battaglie combattute dalle donne nei decenni passati avessero fatto il loro lavoro. Credevo sinceramente fosse così. A un tratto, però, mi sono accorta che stiamo andando verso un mondo dove il conflitto è sempre più accentuato e dove il potere, grazie a questo conflitto crescente, naviga in acque sempre più tranquille. Mi riferisco a un conflitto anche quotidiano: ciascuno di noi credo perda ogni giorno di più la volontà e la capacità di dialogare, ciascuno di noi parla dei propri fatti, dei propri film, dei propri pensieri, senza cercare nel dialogo con l’altro da sé un vero terreno comune. Non comunichiamo, cioè, in maniera ampia, politica in senso lato. Se questo accade tra le persone comuni, applicato al Potere inteso come dominio sulla collettività, crea un’assoluta impossibilità di confronto. Il che significa che il mondo civile, i diritti acquisiti dal dopoguerra in poi, sono precipitati nella totale negazione, fino ad arrivare alla negazione di qualsiasi forma di diversità. Questo, ovviamente, vale anche per i diritti delle donne: come ho già detto, se non si creano solidi e comuni modelli culturali, anche quelli acquisiti invecchiano e si deteriorano. I modelli culturali proposti anche dal cinema sono tornati a essere quelli di donne legate a canoni, familiari e relazionali vecchi. L’incapacità di sostenere i principi acquisiti, facendoli così evolvere e migliorare, ha portato a un potere calpestante anche e soprattutto verso le donne. Le donne stesse, d’altra parte, o hanno ceduto al potere maschile o, nel peggiore dei casi, hanno assunto le sue caratteristiche. Purtroppo, temo che questa mia vicenda personale sia rimasta irrisolta così a lungo, sviluppandosi in maniera tanto negativa, perché sono una donna. Mi sono sempre posta come una persona che cercava un dialogo: ho mandato lettere, ho chiesto incontri, ho aspettato e fatto telefonate a direttori generali, ministri e produttori per invitarli a dialogare con me e trovare insieme un punto d’incontro. Ma il potere, che è diventato più maschile di prima, non mi ha ascoltato. Temo, ma non posso dirlo con certezza, che se fossi stata un uomo, ci sarebbero state maggiori possibilità di mediazione con le mie controparti e il mondo circostante sarebbe stato probabilmente più solidale. Il mondo maschile è storicamente più solidale nel creare e conservare sistemi di potere, mentre quello femminile è culturalmente preparato a intervenire solo per soccorrere, invece di agire prima. Il fatto di essere una donna che si pone in modo paritario, pur dando e richiedendo rispetto e ascolto, ha paradossalmente generato una maggiore voglia di punizione ed esclusione. Improvvisamente mi sono trovata a combattere in un mondo che non conoscevo, in cui i modelli culturali, i diritti, le uguaglianze, sono cancellati. Oggi ci sono quote rosa, festival di sole donne, finanziamenti agevolati per le donne, ma credo vengano garantite per mantenere lo status quo di un potere che nelle alte sfere resta quasi tutto maschile. Io non vorrei mai che un mio film fosse scelto in un festival in virtù del mio essere donna, e credo che la maggior parte delle autrici la pensi allo stesso modo. Vorrei invece che una parte rilevante del mondo e del potere fossero in mano al genere femminile, perché penso che le donne possano dare una grande mano, in questo momento storico assai critico, nell’immaginare, proporre e combattere per l’intero mondo. Come in Pride, bellissimo film che racconta una storia vera, sono sicura che le donne sono pronte a scendere in piazza non solo per difendere i propri diritti, ma quelli di tutti.


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