80 anni dalla Liberazione, verso il 25 aprile 2025

Il mio dolore ha valore anche se non lo vedi

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La scorsa volta ci siamo lasciati parlando dei disturbi alimentari e sono davvero felice del riscontro che ha avuto questo argomento. Sul mio profilo Instagram (rebeccacaggiari) ho avuto modo di ampliare la tematica e tantissimi di voi (e stavolta non parlo dei soliti cinque) hanno avuto il coraggio di scrivermi e avviare un confronto.

È stato bello vedere quanta volontà c’è di conoscere e capire, di mettersi in discussione, chiedere scusa e trarre insegnamento dall’ascolto. È stato bello vedere che il silenzio può essere rotto e che, dall’altra parte, ci sono voci pronte a fare rumore.

Comunque, se il problema era che la casella postale vi sembrava troppo antiquata, bastava dirlo…

Scherzi a parte, parlando con voi in questa settimana sono stata la prima a imparare qualcosa ed è per questo che ho deciso di non lasciar cadere l’argomento. C’è ancora troppo da dire per andare avanti, c’è ancora troppo dolore per relegarlo al 15 di marzo.

Nell’articolo precedente mi sono concentrata sull’anoressia, non perché ritenga gli altri disturbi alimentari inferiori (e su questa tematica tornerò tra poco) ma perché, essendone stata malata, è l’unica su cui sento di avere il diritto di parlare. Mi sono resa conto che della bulimia, dell’obesità, di disturbi come il binge eating io non so nulla all’infuori della narrazione che li circonda, e se quella stessa narrazione sull’anoressia è stata così disastrosa, come potevo farci affidamento?

Ho quindi scelto il silenzio, almeno fino a quando qualcuno non sarebbe stato disposto a romperlo con me, ed è per questo che oggi non sono qui per riportarvi le mie parole, ma le vostre:

Quando si è malati di bulimia si sente il bisogno di cibo, del riempirsi fino a scoppiare, del mangiare tutto ciò che capita sottomano. Per nervosismo, rabbia, tristezza; si cerca conforto e soddisfazione dal cibo perché non lo si trova in altro. Mettere un freno ci sembra impossibile, si continua a mangiare finché la sensazione di sazietà non diventa così invadente da costringerti. La soddisfazione dura poco, perché il senso di colpa ti raggiunge subito, e quella stretta allo stomaco, quella sensazione di aver commesso un enorme errore, ti obbliga a togliere immediatamente dal tuo corpo tutto ciò che hai ingerito. Anche in questo caso non lo si fa per gli altri, per essere più belle, per rispettare un canone, lo si fa perché ci sembra l’unica soluzione per mettere un freno ai pensieri, per acquietare il senso di colpa. Potrebbe sembrare di essere bloccati in un loop infinito di dipendenza e allontanamento, ma non è così. Uscirne non è impossibile. Non bisogna vergognarsi di chiedere aiuto, soprattutto se siamo in difficoltà”.

Non sapevo di essere malata di bulimia, non avevo gli strumenti per capirlo. Sapevo di non avere il controllo, di cercare nel cibo un conforto che altrove non riuscivo a trovare, di non riuscire a fermarmi anche quando il corpo mi implorava di farlo. Sapevo che il senso di colpa mi avrebbe devastata, che avrei cercato in tutti i modi di rimediare all’errore, che avrei contato ogni singola caloria del prossimo pasto, che l’avrei saltato, che mi sarei ammazzata di attività fisica solo per caderci ancora una volta. Eppure ero magra, eppure non mi inducevo il vomito, allora non potevo essere malata di bulimia, perché tutti attorno a me dicevano che la bulimia era questo”.

Io ho sofferto di bulimia e binge eating e posso dirti che ha una matrice completamente diversa: il senso di colpa. È un ciclo continuo in cui non si riesce a stare lontani dal cibo, lo si odia, non lo si vuole nel proprio corpo, eppure non si riesce a farne a meno e ci si sente in colpa per questo. Speri che nessuno se ne accorga, nessuno veda, nessuno sappia, nascondi le tracce, speri sparisca con te”.

Io sono stata malata di anoressia ma non sapevo di esserlo. Non mangiavo quasi mai, avevo paura del cibo. Saltavo i pasti ogni volta che potevo, mi devastavo in palestra, controllavo tutto ciò che mangiavo ma ero comunque grassa. Non si può avere un disturbo alimentare quando si è grassi, non si può essere anoressiche quando non ti si vedono addosso le ossa. O almeno così mi hanno sempre detto”.

Queste sono solo alcune delle vostre testimonianze e dall’ultima, in particolare, vorrei trarre spunto per un discorso. Troppe volte parlando di disturbi alimentari ci si concentra solo sull’anoressia, è la più evidente, la più difficile da ignorare. Si ha la sensazione che esistano malattie di serie A e malattie di serie B, e questo perché purtroppo la nostra società è profondamente grassofobica. Davanti a una persona in sovrappeso si punta il dito anziché tendere la mano. Le si dà la colpa, la si sminuisce, la si prende in giro. E allora il discorso è sempre quello, si deve davvero arrivare al punto in cui non si può più chiudere gli occhi per capire che qualcuno sta male? Il dolore è legittimo, autentico, solo se anche il corpo è disposto a mostrarlo?

Vogliamo davvero continuare a credere alla favola che i disturbi alimentari nascano dal desiderio di non essere brutti, grassi e cattivi o siamo pronti ad accettare che non è così? Che non è colpa nostra, e che il modo giusto per aiutare non è certo commentare ciò che abbiamo o non abbiamo nel piatto, i chili che abbiamo o non abbiamo addosso?

Frasi come “Davvero mangi così poco? Io non potrei mai!”; “Davvero lo finisci tutto? Ma non sei piena/o?”; “Guarda che così non sei attraente, non piaci agli altri! Sei brutta/o con le ossa di fuori!”; “Saresti molto più bella/o con qualche kg in più/in meno!”, anche se fatte con le migliori delle intenzioni non sono mai una forma d’aiuto ma sempre e comunque di giudizio, e spesso non fanno che alimentare il dolore che c’è alla base di queste malattie. Lo rendono più forte, danno valore agli sforzi.

Piuttosto, impariamo a chiedere “Come stai? Posso aiutarti? Hai bisogno di parlare?”, alla fine, tutto si riconduce qui.

Anche se ho capito che non vi piace, vi lascio sempre la mia mail la.posta.inquieta.direbecca@gmail.com dove vi aspetto per qualsiasi confronto.

In alternativa, per chi lo preferisce, lascio il profilo IG: pensieri.inquieti, creato apposta per voi.

Se neanche questo vi piace, il mio profilo principale ve l’ho lasciato all’inizio dell’articolo. Insomma, niente scuse, vi aspetto.

E grazie, grazie di cuore per tutto.

 


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