80 anni dalla Liberazione, verso il 25 aprile 2025

Il disagio come sussurro

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Dormo di meno. Notizia irrilevante, in tempo di genocidio, il genocidio di Gaza. Notizia irrilevante, chiusa nella biografia di una singola persona, se non fosse che, a condividerla con le altre e gli altri, a non rimanere in silenzio, si scopre che non sei la sola. Che, da Roma a Parigi a Torino a Palermo, è un sussurro. “Non dormo la notte, penso ai miei figli”. “Comunque la vita mi è cambiata”. “No, non sto bene, anche se sto bene”. “Ma cosa possiamo fare? Noi non contiamo niente”. “Lo sai? Non ce la faccio più a guardare le immagini che arrivano da Gaza. Me ne vergogno, ma io non ce la faccio più a guardarle”. “Non riesco neanche a piangere”.

In questo anno e mezzo di incontri pubblici, presentazioni di libri, zoom, viaggi, treni e aerei, piccole condivisioni di parole, dediche sui libri (“mi scriva qualcosa sulla pace, non ha importanza il mio nome”), ho compreso che il disagio è un sussurro. Una colonna sonora.

Non riesce a diventare gesto, manifestazione, massa critica. Ma è poi così rilevante che non diventi ciò che pensiamo possa veramente contare, in chiave politica? Me lo domando, da giorni settimane mesi. Per ora (ma solo per ora, oggi), mi basta che ci sia, e non per conforto. Probabilmente lo lego, e alcuni dei miei amici che si occupano di Egitto mi capiranno, a quello che Asef Bayat, acuto sociologo iraniano-americano, aveva definito in un suo libro bellissimo e famoso, life as politics. “La vita come politica”. Non prepolitica, non a-politica. La vita come politica.

Mancanza di sonno, insonnia irrequieta, la mancanza di appetito, il disagio, il nostro cervello e il nostro cuore che non sopportano la vista del massacro a Gaza. La vita come politica si manifesta anche in questo modo. Nel disagio come un sussurro che corre di bocca in bocca, appena se ne ha l’occasione, per poi rinchiudersi nella dissimulazione. Nel tran tran quotidiano che sembra – solo sembra – tutto uguale. Come prima.

Niente è come prima. Niente è come prima del 7 ottobre. Del 7 ottobre e dell’anno e mezzo seguente. Dell’uno e dell’altro. Del massacro del 7 ottobre e del genocidio in corso.

Cosa non mi basta è il silenzio di chi dovrebbe e potrebbe parlare. Di chi ha strumenti (professionali), possibilità, luoghi dell’espressione. Parlo in casa mia, parlo di giornalismo, parlo di informazione.

Chi è a disagio, assieme a spiegarmi il suo personale, singolo disagio, stigmatizza la mancanza di informazione. Sempre, e senza acredine. Il sentimento che prevale è lo sconcerto e la richiesta di spiegazioni. Di un perché che è grande, complesso, difficile da definire. Ed è in questo silenzio che si concentra la vera responsabilità di questo anno e mezzo.

Non parlo di chi va e mostra la realtà. Di chi, fra noi giornaliste e giornalisti, prova a fare anzitutto il suo dovere e non espunge dai suoi articoli-pezzi-servizi una parte della realtà, della cronaca devastante di questo anno e mezzo. Ci conosciamo, potremmo tranquillamente fare una lista di chi fa, scrive, e si mette in gioco. Me compresa.

Parlo, invece, di una responsabilità collettiva e corale del giornalismo italiano. Lo stesso che non scende in piazza, non fa sciopero, non si rifiuta di continuare a lavorare quando in un posto di meno di 400 km quadrati, in un anno e mezzo, vengono presi a bersaglio i giornalisti palestinesi di Gaza e ne vengono uccisi 208 (numeri del 24 marzo 2025). 208 giornaliste e giornalisti palestinesi di Gaza uccisi dalle forze armate israeliane in massima parte perché presi a bersaglio. Niente a che vedere con la seconda guerra mondiale o con il Vietnam: il paragone non regge, non solo per l’infima misura in chilometri quadrati di Gaza rispetto al Vietnam o all’intero mondo. Non regge perché a Gaza sono stati in massima parte presi a bersaglio. Erano e sono gli unici a mostrare la mattanza, il massacro, la strage, il genocidio, i crimini di guerra e contro l’umanità. Senza immagini e senza voci, il genocidio non si vedrebbe. E noi, noi ‘giornalisti internazionali’, forti della nostra presunta credibilità – bianca e occidentale – non ci possiamo entrare, a Gaza. Le autorità israeliane non ci fanno entrare, a Gaza.

La responsabilità collettiva e corale del giornalismo italiano, però, può esprimersi anche senza andare a Gaza. Ci sono le testimonianze dei nostri colleghi palestinesi. Ci sono le interviste da fare, a distanza. Basta conoscere Gaza. Conoscere la terra. E intuiremmo cosa sta succedendo, in una terra distrutta, tutta distrutta.

Ed è qui il secondo ostacolo, che va dritto alla questione delle parole, del linguaggio impreciso che si usa non dal 7 ottobre, ma da 20 anni. Sono 20 anni, almeno, che non si affronta sui giornali la questione israeliano-palestinese (non è un conflitto, maledizione, non c’è nessuna possibile equiparazione tra i due “contendenti”, non è un duello, non è la guerra tra 2 stati ognuno dei quali detiene il monopolio dell’uso della forza). La questione israeliano-palestinese è stata considerata periferica, l’idea che Israele l’avesse vinta è stata pervasiva, e ancor più pervasiva la diffusione di un pensiero unico (i palestinesi non vogliono la pace, sbagliano tutto, sono terroristi, Israele è il simbolo della modernità, Tel Aviv è la modernità, Israele è l’unica democrazia del Medio oriente).

E poi, poi tutto si è sciolto nel 7 ottobre, nel maledetto 7 ottobre e nell’attacco -terroristico nei risultati – compiuto dalle fazioni armate palestinesi sotto la guida di Hamas. Tutto. Tutto salvo ciò che per vent’anni abbiamo taciuto: la complessità di una storia per cui vanno usate le giuste parole, anche per descrivere la cronaca. Impreparati come siamo (come sono), noi giornalisti italiani, il risultato è l’afasia, il silenzio, la balbuzie. Notizie frammentarie, notizie brevi, video senza spiegazioni cosicché non si capisce chi bombarda (gli israeliani) e chi è bombardato (i palestinesi). Notizie che, soprattutto, hanno spesso già deciso da che parte stare e chi vincerà, in un’opera di Realpolitik per la quale Willy Brandt si rivolta nella tomba. Cosa ci vuoi fare, bellezza, questo è realismo politico: nessuno difenderà i palestinesi, gli arabi non ne vogliono sapere, e poi non hanno mai espresso un Mandela, non sanno fare politica, le hanno sbagliate tutte, e basta che se ne vada Netanyahu e tutto tornerà come prima.

Vi svelo una cosa: prima del 7 ottobre, non andava bene nulla, in Palestina, e pure in Israele. Ma a non avere le coordinate dei 20 anni precedenti si fanno errori marchiani di questo tipo. Gli stessi errori della politica – che in massima parte ignora quelle stesse coordinate e la stessa grammatica e lo stesso vocabolario della questione israeliano-palestinese. Cosicché, quando la politica usa parole sbagliate, e dunque compie gesti sbagliati, il giornalismo non sa nemmeno fare le domande giuste.

Fosse solo questo (ed è già enorme), basterebbe un aggiornamento professionale serio, e ne usciremmo. Quello che c’è, oltre tutto questo che è già molto, è il razzismo sostanziale nel guardare Gaza e la Palestina, e il Sudan e il Myanmar, e la Repubblica democratica del Congo. Non solo non sono bianchi, ma non contano nelle dinamiche politiche internazionali, perché ci sono “gli interessi occidentali” che debbono essere protetti. Anche fuori da un indefinito occidente. Sono massa, sono poveri, sono sfigati, non sono rilevanti. La politica-politica si fa da altre parti.

Vi svelo un’altra cosa: il mondo è cambiato, ma non ce ne siamo accorti. L’Onu era formato da poche decine di paesi, quando è stato istituito. Ora sono circa 200 i paesi che compongono l’Onu perché nel frattempo – come dice e scrive Pankaj Mishra, grande intellettuale indiano – la decolonizzazione è stato l’evento più importante del Ventesimo secolo a livello globale. Il mondo è cambiato e noi, in Italia, aspettiamo lo tsunami che ce lo spieghi nel mondo più dirompente possibile.

Nel frattempo, come nei baccanali che riempivano le giornate di un impero (romano) in declino, continuiamo il nostro tran tran. Noi giornalisti, senza una riflessione collettiva e corale, necessaria, urgentissima. Mentre il popolo, quello vero, riesce a mostrare disagio oltre noi e la nostra afasia. Perché capisce, con la sua “vita come politica” che qualcosa di enorme sta succedendo, in questo stesso Mediterraneo.  Sussurra che è un tempo diverso, ed è infatti un tempo di genocidio.

Se solo ascoltassimo il sussurro, il sussurro della gente, come facevano gli angeli di Wim Wenders e del suo “Cielo sopra Berlino”. Se solo ascoltassimo, e scrivessimo.

La foto ritrae 2 dei 208 giornalisti palestinesi di Gaza assassinati dalle forze armate israeliane. Il collega a sinistra si chiamava Hossam Shabat, l’ultimo ucciso. Aveva 24 anni, se ne sentiva 100, dopo un anno e mezzo di genocidio, come scriveva poco tempo fa, e il suo pezzo testamento andrebbe letto non in tutte le scuole di giornalismo, ma in tutte le redazioni. Accanto a Hossam Shabat, con il medesimo straziante sorriso, Ismail al Ghoul. Ucciso anche lui.

(Vi svelo un’ultima cosa: parte del giornalismo israeliano è più coraggioso di tutto il giornalismo italiano e occidentale messo assieme. Leggete Haaretz e 972mag. Scoprirete, per esempio, che il cessate il fuoco lo ha rinnegato e rotto Israele, e che è Hamas era disposto a liberare tutti gli ostaggi subito in cambio di un accordo immediato)

 

(pubblicato su https://www.invisiblearabs.com/2025/03/25/il-disagio-come-un-sussurro/)


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