Il giornalisticidio a Gaza continua, nel silenzio-assenso della comunità internazionale con i giornalisti diventati testimoni scomodi che occorre eliminare uno ad uno. Continua il massacro dei cronisti che documentano gli orrori della guerra israeliana su Gaza, continuano gli efferati delitti ai danni degli operatori dell’informazione palestinesi che cercano di far sapere al mondo cosa accade all’interno della Striscia. L’esecuzione a sangue freddo di Mohammad Mansour, corrispondente di Palestine Today, e di Hossam Shabat, reporter di Al Jazeera, entrambi colpiti a morte nella Striscia di Gaza, ha suscitato la ferma condanna del Sindacato dei Giornalisti Palestinesi. In un comunicato, l’organizzazione accusa Israele di aver commesso “crimini di guerra” con l’obiettivo di “cancellare la verità e terrorizzare chiunque difenda la libertà di parola”.
Stando ai dati diffusi dal Sindacato, oltre 206 operatori dell’informazione sono stati uccisi da proiettili o missili israeliani dall’inizio delle operazioni israeliane a Gaza “il massacro di giornalisti più letale della storia moderna”, consumato – si legge nella nota – “nel silenzio internazionale e nella complicità di chi non prende posizione contro le violazioni dell’occupazione”.
Tra i due reporter colpiti, Hossam Shabat era diventato un punto di riferimento costante per seguire da vicino quella che il Sindacato definisce “una campagna di distruzione sistematica” nel nord di Gaza. Aveva documentato la demolizione del campo profughi di Jabalia, restando sul posto anche durante i primi tentativi di “pulizia etnica totale”. Shabat aveva ricevuto minacce sin dalle prime fasi del conflitto. Subito dopo il 7 ottobre 2023, un ufficiale dell’intelligence israeliana gli avrebbe intimato di cancellare tutti i post su Facebook successivi a quella data e di abbandonare immediatamente Beit Hanoun, nel nord di Gaza, pena la distruzione della sua abitazione. Il giornalista aveva rifiutato e, subito dopo, un raid aereo ha raso al suolo la sua casa. Non era la prima volta che Shabat veniva preso di mira. Nell’ottobre 2024, l’esercito israeliano aveva dichiarato di possedere “prove” – mai rese pubbliche – secondo cui il reporter sarebbe stato un cecchino affiliato a un battaglione di Hamas, inserendolo in una lista di individui da eliminare. Il 20 novembre scorso, Shabat era rimasto ferito mentre cercava di raggiungere il luogo di un bombardamento su un’abitazione civile. L’auto del giornalista è stata presa di mira da un drone a Beit Lahia, nel nord di Gaza, che lo ha ucciso sul colpo. Il suo ultimo tweet, postato la sera prima, recitava: “A Gaza, il ferito viene ucciso”. E l’ultimo post su Instagram – pubblicato poco prima di morire – mostrava il corpo straziato di Mohammad Mansour, altro reporter caduto a Khan Younis poche ore prima. Prima di cadere vittima dell’ennesimo raid, Shabat aveva affidato un messaggio al suo team, diffuso dal Sindacato:
“Se state leggendo queste parole, significa che mi hanno ucciso. […] Ho rischiato tutto per raccontare la verità e ora, finalmente, sono in pace, qualcosa che non riuscivo a trovare da 18 mesi. […] Non smettete di parlare di Gaza, non voltatevi dall’altra parte. Continuate a lottare e a raccontare le nostre storie, finché la Palestina non sarà libera.”
Per il Sindacato dei Giornalisti Palestinesi prendere di mira i cronisti è un reato che dovrebbe spingere la comunità internazionale ad azioni immediate e a sanzioni esemplari, cosa però che non avviene perché a nessuno importa la triste sorte dei giornalisti palestinesi che lottano per la libertà di stampa. Il sindacato chiede l’intervento di Nazioni Unite, Corte Penale Internazionale e organizzazioni per i diritti umani, perché “smettere di denunciare equivale a rendersi complici”. “Ribadiamo il nostro impegno a documentare questi crimini e a portare i responsabili di fronte alla giustizia internazionale”, aggiunge l’organizzazione. “I tentativi di soffocare il giornalismo palestinese falliranno e la voce della verità continuerà a levarsi al di sopra del frastuono di morte e oppressione”.
La voce della verità non può essere soffocata ed anche noi di Articolo21 continueremo a testimoniare affinché venga spezzato il muro di gomma, di silenzio e di omertà che circonda la sorte dei colleghi palestinesi.