Carissimo Bruno,
non ti ho mai confessato che prendevo appunti mentre ti ascoltavo. Perché non te l’ho confessato? Per pudore, per quella forma di rispetto e di soggezione che scaturisce spontanea in chi, prima ancora di farlo, quel mestiere lo sognava. Maestri della parola. Questo siete stati per la nostra generazione di radioascoltatori e telespettatori tu, Ameri, Ciotti e Provenzali.
Eppure, la tua spontanea empatia metteva tutti a loro agio. Anche noi, più giovani e “praticanti” del mestiere. Non ti sentivi un maestro. Lo eri e basta.
Il pubblico ti ha voluto bene per la spontaneità e la semplicità con la quale raccontavi il gioco più amato. Nessuna iperbole, nessuna frase scritta in anticipo, nessun colpo di scena. Quelli spettavano ai calciatori, veri protagonisti del tuo racconto. Non a te che eri al microfono, testimone dell’evento e non attore. Testimone attento e sensibile perché avevi giocato da professionista e sapevi cosa passa per la testa ed il cuore di un calciatore. Testimone competente, senza la presunzione di insegnare calcio a chi ti ascoltava. Ti interessava accompagnare le emozioni dei telespettatori, non esaltarle. Frasi semplici, dirette, immediate. E magari un nome di battesimo per sottolineare quel legame emotivo che identifica l’appassionato con un giocatore: “Roberto, Roberto, Roberto…” Riferito ovviamente ad uno di quelli che amavi di più: Roberto Baggio.
Non credo che oggi gli innamorati del pallone si soffermeranno più di tanto sul fatto che non abbia mai potuto gridare “Campioni del Mondo!”. Non fu possibile nel ’90, quando Maradona ci eliminò alle soglie della finale, e nel ’94 quando a Pasadena proprio il tuo Roberto mandò oltre la traversa il suoi sogni e i nostri. Ingiusto destino per lui e per te. Ma non te ne sei mai rammaricato, perché i mondiali non li vincono i telecronisti o i radiocronisti; li vincono i calciatori. Non avresti mai voluto sovrapporti a loro, neanche nella delusione di un mondiale perso.
Sono pochi i telecronisti che hanno meritato striscioni negli stadi. Tu eri uno di quelli perché il pubblico ti voleva bene. Eri stato capace di “rompere il vetro” dello schermo ed entrare nei salotti degli italiani in punta di piedi. Anche quando hai raccontato la tragedia dell’Heysel. Quelle immagini drammatiche erano già troppo. Non c’era bisogno di accentuarne il dolore. Non l’hai fatto. Hai cercato di accompagnare la nostra sofferenza e quella di chi aveva i suoi cari lì, a Bruxelles, con sensibilità, umanità, persino dolcezza, se era possibile averne in quei momenti.
Sì, Bruno. È stato davvero “tutto molto bello”. Ci mancherai. Tanto.