80 anni dalla Liberazione, verso il 25 aprile 2025

Tim si piega e si spezza

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Oggi si tiene un consiglio di amministrazione di Tim, in cui si dovrebbe discutere di modifiche dello statuto e, soprattutto, di aggiornare il piano 2024-2026. Quando si mette mano agli statuti ci sono spesso sottotesti che vanno ben al di là di una riga o di un comma. Ugualmente, dietro una mera radiografia del quadro economico-finanziario si celano risvolti strategici di qualche peso. Andando al succo della questione, sta arrivando l’ora della verità. L’Italia sarà il primo paese europeo in cui un ex monopolista si riduce a territorio di conquista perdendo ogni primazia? Il rischio è serio. Sono anni che, a cominciare dall’infausta privatizzazione della fine del secolo scorso, una società di alto profilo e di assoluto rilievo nell’età della crescita del mondo delle telecomunicazioni ormai ibridato dalle tecniche post-analogiche subisce il fuoco concentrico di amici e nemici. Indebitata, passata di mano in mano e con baricentro sempre più straniero l’azienda si trova ora in una insidiosa zona di frontiera. Infatti, se non osa tuffarsi nell’universo tracciato dalla triangolazione tra oligarchi della rete, intelligenza artificiale e cybersicurezza rischia di retrocedere in serie B (o persino C); ma se osa potrebbe fallire.

L’indebitamento rimane altissimo. Il combinato disposto degli interessi affaristici del Fondo statunitense KKR e dell’uscita di scena (onerosa) del socio di maggioranza relativa Vivendi è foriero di problemi significativi. La divisione di Tim, con l’idea che la liberazione della componente consumer senza il fardello della struttura pesante fosse utile, ad altro non è servita se non ad esporre un apparato già indebolito ad ulteriori avventure. Non per caso, si è profilato l’interesse di un altro gruppo d’Oltralpe -Iliad (con il Fondo CVC)- ostile a Bolloré e dalle dimensioni forse non adeguate a condurre una vera conquista, ma se mai ad assecondare la volontà che alberga negli ambienti governativi di ridurre da quattro a tre i concorrenti in una fase di contrazione consistente dei ricavi.

Avanza pure l’ipotesi dell’ingresso Poste, protagonista di una notevole evoluzione rispetto ai tempi che furono, con l’attrazione dell’acquisto della quota (9,81%) di Cassa depositi e prestiti. In sospeso è ancora la questione delicata di Sparkle, la cui vendita (per fare cassa) slitta e non sembra che desti inquietudine che sia praticamente all’asta un nodo così delicato e cruciale per la conclamata sicurezza dei dati e delle connessioni.

E neppure è un caso se il vertice della trama nervosa dell’ex monopolista -Fibercop- ha subito uno scossone con le dimissioni dell’amministratore delegato Luigi Ferraris.

Lasciamo perdere, poi, le incaute promesse di palazzo Chigi sulla «rete unica», rimaste un proclama sovranista travolto dalla reale politica subalterna ai poteri forti del sistema e incapace di disegnare una linea effettivamente nazionale. Che ne è del matrimonio sancito a tavolino con Open Fiber? Parole, parole… per citare Mina. Si è accennato al cambio di paradigma in corso. La crescita esponenziale del capitalismo delle piattaforme (e della sorveglianza) ha spostato ordine del discorso e priorità. Se le vecchie compagnie telefono-casa non si trasformano rapidamente escono di scena. In tale temperie aspra e conflittuale servirebbe davvero una cospicua presenza dello Stato, mentre svendite e privatizzazioni al ribasso contribuiscono ad una resa indignitosa. Il governo ha esclamato con la credibilità di un arlecchino qualsiasi che non vi dovranno essere né licenziamenti né spezzatini. E chi si fida, dopo affermazioni omologhe puntualmente smentite? E con il rinvio degli incontri con le organizzazioni sindacali?


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