“L’uomo nel bosco”, di Alain Guiraudie, Fra, Spa, Por., 2024. Con Fèlyx Kysil, Catherine Frot, Jean-Baptiste Durand.
Grande conferma del talento dell’autore de “Lo sconosciuto del lago”, l’opera di Alain Guiraudie è stata eletta, giustamente, film dell’anno dai “Cahiers du cinéma”. Raramente capita, infatti, di incrociare uno sguardo tanto geometrico quanto destabilizzante. Jéremié torna per un funerale, che scopriremo essere di un uomo di cui egli era stato silenziosamente innamorato, nel suo piccolo paese d’origine, immerso nel bosco dell’Aveyron di truffautiana memoria. Diventa “soggetto” di attenzione di chi conosceva e non vedeva da tempo, la vedova e il figlio di questa, Vincent, ma anche del parroco, ed egli stesso si approccia esplicitamente ad un rude ed ingenuo vicino di casa, altra vecchia conoscenza.
Fin da subito, sono Simenon e Chabrol i fari attorno a cui si muove la cinepresa implacabile e sottile del grande regista francese. Pochi metri quadri, un appartamentino e un pezzo di strada, nei quali raccontare tutto lo spettro dell’animo umano, che sfociano in un bosco che sa di prigione e di destino irrisolto. Jerémié uccide Vincent proprio lì, nella natura più nuda, nemmeno lui sa perchè. Sì, preso dalla foga di un litigio nato da gelosie incrociate ed antiche, ma senza cognizione di causa, come qualcosa che è accaduto e basta. Insomma, siamo dalle parti del Meursault de “Lo straniero” di Camus, e l’essere indifferente del protagonista a tutto quello che gli accade intorno è la cifra ultima di questa inquietante messa in scena, alla quale il tocco distaccato e bressoniano di Guiraudie aggiunge quel tanto di religiosità laica che aleggia sul viso e sul corpo di Jéremié. Come l’angelo planato nella residenziale Milano del “Teorema” di Pierpaolo Pasolini, egli destabilizza se stesso e chi incontra in un gioco di emozioni e turbamenti che sembrano nascere da desideri sopiti o repressi che non si possono più controllare.
Sarà il parroco a salvarlo dalla giustizia, con un atto di misericordia “dissoluta” ( e proprio “Miséricorde” è lo stupendo titolo originale) che nasce dalla sua cristiana volontà di “perdonare” l’Uomo, dolorosamente carico di sentimenti e di contraddizioni, piuttosto che consegnarLo “inutilmente” all’arida giustizia umana, attenta a salvaguardare la società e lo Stato ma non le ragioni dell’individuo, così complesse e non riducibili ad una “semplice” legge, metaforicamente ed efficacemente rappresentata sullo schermo dalla grettezza ridicola del poliziotto incaricato dell’indagine. Sangue, terra sporca, Eros e Thanatos irrimediabilmente fusi, questo il quadrilatero attorno a cui si muove un’umanità dolente, alla ricerca di un briciolo di affetto, di un brandello di felicità. E la carezza carica di pietas del parroco al corpo esanime di Vincent, prima di nasconderlo definitivamente nel cimitero, fa da pendant con l’incrociarsi della mano di Jéremié con quella di Martine, madre della sua vittima e moglie di quell’uomo che egli aveva tanto amato, insieme a letto e pronti ad abbracciarsi perchè questo chiede la fredda solitudine agli uomini in bilico su un precipizio, così lontani da ogni giudizio morale. Decisamente, siamo dalle parti dell’immagine che si fa carne, insieme peccato e redenzione, a far dimenticare che ciò a cui stiamo assistendo sia cinema bensì realtà, di quella da toccare, per dirla con Rossellini.