80 anni dalla Liberazione, verso il 25 aprile 2025

La “Danza macabra” e la nascita del Teatro moderno

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Compagnia Godot di Bisegna-Bonaccorso.
Teatro “Maison Godot”, Ragusa.
“Danza macabra”, di August Strindberg.
Adattamento di Federica Bisegna.
Scene e regia di Vittorio Bonaccorso.

Con Federica Bisegna, Vittorio Bonaccorso, Cristiano Marzio Penna, Benedetta D’Amato, Lorenzo Pluchino, Rossella Colucci, Alessandra Lelii.

“Danza macabra” di August Strindberg è sinonimo di quel grande, magico azzardo che si chiama Teatro. La vicenda di Edgar e Alice, marito e moglie, è il paradigma assoluto della sconfitta dell’Umanità, del fallimento dell’Uomo, dell’impossibilità di uscire fuori dal proprio Io e del conflitto perenne che siamo destinati a vivere anche con chi sentiamo più vicino a noi. Scritta nel 1900, la stratosferica pièce del geniale autore svedese si muove sulla scia di Freud e anticipa autori novecenteschi del calibro di Beckett e Pirandello. Come non pensare al “Così è (se vi pare) del grande agrigentino, in quell’entrare e uscire alternato dalla scena dei due protagonisti di Strindberg, impegnati a convincere lo spettatore delle loro ragioni contrapposte. E come non assimilare l’incomunicabilità di Edgar e Alice a quella dei tanti personaggi creati dal genio dublinese di “Aspettando Godot” e “Finale di partita”, perennemente calati all’interno di dialoghi che si consumano nel nulla di chi mai potrà riuscirà a comprendere il dire dell’altro, tutti travolti da una realtà spaventosamente indecifrabile e segnata da una sola certezza, lo scorrere del tempo, il vuoto, la morte. Fece scandalo “Danza macabra”, nel 1900, perchè il coraggio dell’arte somma di Strindberg intaccava l’istituzione sociale per eccellenza, la famiglia. Per la prima volta, essa veniva messa in discussione con una veemenza ed un fervore da fare rabbrividire persino i più scettici di questo nucleo naturale primordiale, strettamente connaturato all’essenza umana e per questo inevitabilmente destinato ad essere ricettacolo e cassa di risonanza di ogni più sordida e inevitabile contraddizione.

Paradossalmente, il “teatro borghese” di Strindberg è il primo atto di quel teatro rivoluzionario del Novecento che avrebbe gettato le basi per un rinnovo dell’Arte in tutti gli altri campi. Edgar e Alice sono due vinti dal destino, lui fallimentare nella carriera militare, lei costretta a rinunciare alla carriera di attrice, pronti a sbranarsi ad ogni occasione, anche la più banale, dopo 25 anni di matrimonio divenuti una condanna a cui non si sanno sottrarre perchè quella è oramai la loro condizione esistenziale, la loro identità. Allontanarsene significherebbe per loro annullarsi, perdersi nell’indistinto, condizione impossibile da reggere. Solo la morte di uno dei due, nella fattispecie di Edgar, consentirà al coniuge superstite, Alice, di gioire perchè finalmente libero da questo “giogo” invisibile. E la spaventosa risata finale davanti al morto è la sintesi più efficace di questa raggiunta e anelata “libertà”. Strindberg allarga, simbolicamente, il suo raggio d’azione disperante anche ad altri personaggi non strettamente legati al nucleo familiare indagato, ad evidenziare come nessuno sfugga a questo gioco al massacro, che dalla famiglia si allarga a macchia d’olio verso ogni dove. Kurt, il cugino di Alice, interpretato dall’impeccabile Cristiano Marzio Penna, rappresenta il mondo circostante, la realtà ” toccata” da questo inferno dell’intimità. La sua è una figura ambigua, insieme vittima e complice dei tanti misfatti che si muovono sulla scena, come anche quella di suo figlio Allan e della figlia della coppia Edgar-Alice, Judith, giovani e innamorati ma destinati alla stessa sorte di sopraffazione e miserie vissuta dai loro “cari”.

Vittorio Bonaccorso, anche magnifico interprete di Edgar, nella sua strepitosa messinscena, perfetta nel ritmo e, soprattutto, nella tempistica, non trascura di citare direttamente uno dei più illustri allievi di Strindberg, il regista svedese Ingmar Bergman, ma anche, indirettamente, altri artisti che hanno regolato i loro “conti” con la famiglia, da Roman Polanski a Luis Bunuel, muovendosi attraverso innumerevoli registri interpretativi, che vanno dallo spietato al grottesco. L’uso che Bonaccorso fa della scenografia è essenziale nel far emergere i caratteri dei protagonisti, attraverso la magica fusione di realismo ed espressionismo. La figura femminile di Alice gode della straordinaria interpretazione di Federica Bisegna, impeccabile nell’incarnare le mille facce che ognuno di noi si trova a dovere prima vivere e poi “recitare” sul tragico palcoscenico della vita. Judith e Allan portano sulla scena il loro candore già intriso di tragica ambiguità, grazie alle indimenticabili interpretazioni di Benedetta D’Amato e Lorenzo Pluchino. Rossella Colucci e Alessandra Lelii sono preziose nel disegnare rispettivamente la “Morte” bergmaniana di provenienza “Settimo sigillo” e la cameriera di famiglia trucemente, e chabrolianamente, consapevole di ciò che le gira intorno.

Alla fine applausi interminabili per l’ennesima riuscita messinscena  della Compagnia “Godot” di Ragusa, che in 30 anni di attività ha segnato, definitivamente, per qualità e professionalità, il modo di fare ed intendere il Teatro in questo capoluogo siciliano, e non solo.

 


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