80 anni dalla Liberazione, verso il 25 aprile 2025

Trump nel paese di Macondo

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Tragica realtà e realismo magico: la fatalità ritorna destino, la letteratura cronaca. Per la storia, si vedrà. Le due centinaia di disperati che il presidente degli Stati Uniti ha voluto mostrare in catene prima di deportarli nella Colombia da cui erano emigrati, sono stati riportati in patria proprio nelle stesse ore in cui emuli in carne ed ossa del romanzesco colonnello Aureliano vi riaccendevano un’altra folle battaglia. Adesso nel nord-est, nel Catatumbo ai confini del Venezuela, con sullo sfondo più congiure e vendette che nella creativa fantasia di Gabriel Garcia Marquez. Due folti gruppi di combattenti rivali, armati di mitragliatori e bombe a mano hanno cominciato a spararsi nelle strade d’un abitato affollato di gente inerme. Sono residui di storie esaurite e tuttavia non concluse. Alcune centinaia di uomini perduti che si disputano lucrosi traffici illegali, cocaina e petrolio soprattutto. Con gli animi avvelenati anche da vecchie ruggini politiche. Tra quanti hanno infine scelto la pace e i loro oppositori, che si dichiarano traditi nel comune giuramento rivoluzionario. Accusati a loro volta di voler nascondere dietro una falsa idealità la scelta mercenaria.

In un paesaggio d’immobile ma rigogliosa natura con mille sfumature di verde, esplosioni e terrore mettono in fuga da giorni un’umanità costretta a convivere con interessi di fazione traviati da sfrenate ambizioni personali. Il realismo appare spogliato ormai d’ogni magia. Forse neppure Garcia Marquez riuscirebbe ancora a scriverne. In ordine sparso e con le uniformi delle FARC (Fuerzas Armadas Revolucionarias), gli armati in arrivo dal territorio colombiano; forse venuti all’attacco dalla frontiera venezuelana gli altri, anch’essi in gran parte colombiani, ma con dei venezuelani tra loro e i distintivi dell’ELN (Ejercito de Liberaciòn Nacional) sulle mimetiche. Inseguiti dal sospetto di aver qualcosa a che vedere con il rancore di Nicolàs Maduro per il mancato riconoscimento di legittimità alla sua elezione a presidente da parte del capo di stato colombiano, Gustavo Petro. Entrambe le formazioni furono parte dei “cent’anni di solitudine” della storia colombiana. Ormai un groviglio di sviliti odi e debolezze politiche estremamente difficili da sciogliere. Ben note a Donald Trump che spera di poter trarne profitto per le sue nuove mire egemoniche sul subcontinente americano.

La battaglia prosegue cruenta, sebbene l’intervento di reparti dell’esercito regolare l’abbia spinta ormai verso campi aperti e boschi disabitati. E’ la più feroce degli ultimi tempi. Dopo gli accordi di pace ottenuti nel 2016 dall’allora presidente liberal-conservatore Juan Manuel Santos, a conclusione d’oltre un quindicennio di negoziati sabotati, interrotti e ripresi innumerevoli volte. Con il conseguente disarmo della quasi totalità delle guerriglie che si sono succedute fin dal 1948, per contrastare la medievale rapacità dei latifondisti e sostenere la necessità d’una riforma agraria capace di ammodernare il paese. Frazioni ridotte dei combattenti hanno rifiutato, però, di deporre le armi, risucchiati dai lucrosi guadagni dei traffici illegali che ora di nuovo li hanno portati allo scontro. Centocinquanta i morti di questi giorni, molte decine i feriti, 20mila i profughi dalla zona dei maggiori combattimenti, mi informa il collega d’una radio locale presente sul posto, Christian Orozco. Dice che l’emigrazione colombiana provocata dalla violenza storica non è minore di quella dovuta alla povertà delle campagne, tanto da aver mezzo spopolato anche questa provincia, non miserevole. Trump o non Trump, se continua così, la gente continuerà ad andarsene, conclude.

Mi ricorda che con parole e in circostanze ancor più tese, ho ascoltato osservazioni in sostanza non diverse quasi un quarto di secolo addietro. A rivolgermele allora due persone tra loro acerrime nemiche, divenute nondimeno diretti interlocutori nei primi tentativi d’un dialogo di pace. Il presidente della Repubblica Andrès Pastrana, liberale, milionario, figlio a sua volta di un ex capo dello stato; e Raul Reyes (il cui vero nome era Luis Edgar Devia), il capo politico delle FARC, la più radicata e potente guerriglia del paese. Li intervistai uno dopo l’altro per il TG1 della RAI diretto da Albino Longhi. Il Comandante in un accampamento isolato, nei pressi della frontiera con l’Equador che non fu semplice raggiungere. Non lontano da quello già in territorio equadoriano in cui poi, nel 2008, fu centrato da un missile dell’aviazione militare colombiana e polverizzato insieme ad altri suoi compagni. Pastrana, che avevo già incontrato come collega nella redazione del telegiornale di proprietà della sua famiglia di cui era il conduttore e più tardi come sindaco di Bogotà, mi ricevette nella residenza presidenziale. Ma pur diversi e opposti nelle rispettive analisi storiche, entrambi i discorsi erano in sintonia. La Colombia viveva uno stato d’animo da guerra civile. Spaccata tra quanti ritenevano urgente riformare il paese e coloro a tutti i costi con il latifondismo, modello di produzione e accumulazione. Divisi la grande borghesia proprietaria e degli affari, quindi, per riflesso, i militari. Ma anche l’opposizione armata, corrosa da frequenti e sanguinose sconfitte sul campo. Nessuno al riparo da corruzione e violenze efferate. Che per i grandi agrari erano la norma. Con Raul Reyes parlammo oltre un’ora, per lo più in piedi, distanziati dai capanni dell’accampamento, tra gli alberi. Registrando e filmando la conversazione. L’ argomento ricorrente del capo delle FARC, un uomo sorprendentemente esile e cortese, erano il riconoscimento dei diritti di campesinos e piccoli proprietari, le loro garanzie. La guerriglia era autodifesa. Le parole che mi sono più rimaste, me le disse chiamandomi indietro, quando avevamo spento microfono e telecamera: ”Questo paese deve andare avanti… o brucerà…”. Non mancano di ragioni -fu la replica che ebbi dal presidente Pastrana-: c’è chi riconosce loro anche quelle della storia, “ma proprio la storia chiama tutto questo: sviluppo…”


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