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“Oh, Canada-I tradimenti”, di Paul Schrader, Usa, 2024

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Con Richard Gere, Uma Thurman, Jacob Elordi, Michael Imperioli

Dopo le meraviglie de “Il maestro giardiniere”, Paul Schrader ci incanta con un’altra storia di redenzione, memoria e morte. Leonard Fife (un gigantesco Richard Gere), grande documentarista in fin di vita a causa di un cancro, decide di farsi filmare, nella sua ultima confessione intima, da due suoi eccellenti allievi (e come non farsi venire in mente il famoso ed estremo “Nick’s movie-Lampi sull’acqua”, di Wim Wenders, dedicato agli ultimi giorni di vita del grande cineasta americano Nicholas Ray?). Solo così, egli ritiene che il suo dire potrà essere quanto più veritiero possibile. In questo aiutato dalla presenza costante, e continuamente evocata, della moglie Emma (una splendida Uma Thurman). I tradimenti di una vita, un figlio rinnegato, la mascherata diserzione dalla guerra in Vietnam, questi i peccati che Leonard vuole rendere noti a tutti. Neanche, a suo modo di vedere, minimamente compensati, o compensabili, dalle tante inchieste documentaristiche che hanno costellato di successi la sua vita di cineasta al servizio di verità scomode. Il calvinista Schrader è impietoso, scava in profondità nel concetto stesso di memoria, alla ricerca di una verità assoluta che soltanto la cinepresa può essere in grado di cogliere, così fredda e disumana ma anche implacabile e “giusta” nel far emergere quanto di inenarrabile ci accompagna per una vita intera.

La libertà assoluta ha guidato la vita di Fife, in un gioco al massacro con se stesso, in cui i limiti dell’Io costringono il protagonista di questa straordinaria pellicola ad esalare l’ultimo respiro evocando il confino con il Canada (Oh, Canada, appunto…), visto come estrema metafora di una vita all’insegna della ricerca incessante di tutto, costi quel che costi. Il film di Schrader è, dunque, così personale e straziante da diventare persino un film teorico, in cui il discorso sul cinema si incarna dentro le ragioni stesse del mostrarsi come atto liberatorio e insieme come necessaria redenzione. La morte sullo schermo, negata da Andrè Bazin e da Susan Sontag, non a caso citata dallo stesso Leonard, diventa per Schrader il tentativo di affrancamento di un corpo che, disincarnadosi nell’immagine, riuscirà in ultimo a separarsi dalle sue colpe solo dopo averle scontate mostrandole al mondo. Uno slittamento progressivo inesorabile, finale, definitivo, quello del regista americano. Un approdo obbligato, l’unico cui egli poteva giungere, uomo tutt’uno con la sua macchina da presa, unico strumento in grado di assistere, in questa confessione laica, un artista dell’immagine e il suo alter ego. Narratore e narratario uniti per sempre nella necessaria e catartica dissoluzione finale.


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