Era il 3 gennaio 1925, un sabato, quando Mussolini prese la parola in Parlamento per un discorso destinato, purtroppo, a passare alla storia.
Ne citiamo due passaggi, significativi e strazianti: “Ebbene, io dichiaro qui, al cospetto di questa assemblea, ed al cospetto di tutto il popolo italiano, che assumo (io solo!) la responsabilità (politica! morale! storica!) di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il Fascismo non è stato che olio di ricino e manganello e non invece una superba passione della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il Fascismo è stato un’associazione a delinquere (omissis), a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e morale io l’ho creato”. E ancora: “Ora io oso dire che il problema sarà risolto. Il Fascismo, Governo e Partito, è in piena efficienza. Signori, vi siete fatte delle illusioni! Voi avete creduto che il Fascismo fosse finito perché io lo comprimevo, che il Partito fosse morto perché io lo castigavo e poi avevo anche la crudeltà di dirlo. Se io la centesima parte dell’energia che ho messo a comprimerlo la mettessi a scatenarlo, oh, vedreste allora… Ma non ci sarà bisogno di questo, perché il Governo è abbastanza forte per stroncare in pieno e definitivamente la sedizione dell’Aventino. L’Italia, o signori, vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa; gliela daremo con l’amore, se è possibile, o con la forza se sarà necessario. Voi state certi che nelle quarantott’ore successive al mio discorso, la situazione sarà chiarita su tutta l’area, come dicono. E tutti sappiamo che non è capriccio di persona, che non è libidine di governo, che non è passione ignobile, ma è soltanto amore sconfinato e possente per la Patria”.
Non staremo qui a riflettere sull’oratoria mussoliniana e nemmeno sul cattivo gusto di quelle testate che tuttora, a un secolo di distanza, proclamano il Duce “uomo dell’anno”, senza rendersi conto di quanto sia offensiva una pratica del genere. Vogliamo soffermarci, piuttosto, su chi, anche a sinistra, tace, minimizza, acconsente, omette e irride gli oppositori, esattamente come avveniva un secolo fa. Vogliamo occuparci di questa categoria di cerchiobottisti non tanto per spirito di polemica o amore per la contestazione tout court ma per ricordare, innanzitutto a noi stessi, quali e quanti rischi corra il nostro Paese in una fase così delicata a livello mondiale.
Del resto, determinati personaggi li conosciamo bene. Sono coloro che non hanno mai assunto una posizione scomoda in vita loro, che non si sono mai schierati, tanto meno contro il potere, che non hanno mai trovato il coraggio per compiere una denuncia, che non hanno mai preso parte a una manifestazione o che, peggio ancora, hanno sempre aspettato di vedere cosa accadesse per esprimere un parere o il suo opposto. Vogliamo occuparci di questa gente, con la quale abbiamo sempre polemizzato, perché è la stessa categoria che ci consigliava, con toni sprezzanti, di non esagerare nei confronti del berlusconismo, ai tempi delle censure, dei bavagli e dell’editto bulgaro.
Sono coloro che ci hanno chiesto di non esagerare quando denunciavamo, quasi da soli, quanto fosse grave e sbagliata la “riforma” renziana della RAI, oggi dichiarata fuori legge dall’Unione Europea. E sono ovviamente gli stessi che ci consigliano, attualmente, di non pronunciare mai la parola “fascismo” perché il fascismo è morto e sepolto, non tornerà e al governo , in Italia, non possono che andarci fior di liberali. Come vedete, la polemica non è rivolta a questo o a quell’esecutivo: non è nel nostro costume.
Ispirandoci idealmente alla lezione di Sergio Zavoli, stiamo ripercorrendo la “nascita di una dittatura”: un gioiello televisivo che spiegava, per filo e per segno, non solo cosa fosse stato il fascismo ma come fosse stato possibile che si arrivasse alla Marcia su Roma prima e al già menzionato discorso del 3 gennaio ’25 poi.
Fu possibile per il disincanto di molti, per l’ignavia di troppi, per la vigliaccheria di chi avrebbe potuto battersi e non lo fece, per le compromissioni di un notabilato liberale ormai decotto, per l’acquiescenza di un’opinione pubblica provata dalle conseguenze dell’influenza Spagnola e, soprattutto, della Prima guerra mondiale, per l’accondiscendenza del Re e di una Confindustria terrorizzata dalle rivendicazioni operaie dopo la Rivoluzione d’ottobre e per il progressivo disarmo dell’informazione, che partì battagliera e infine si acconciò alle posizioni di Mussolini, ritenendolo un “male necessario” o, per citare una tremenda definizione di Benedetto Croce, una “parentesi” anziché “l’autobiografia della Nazione”, come aveva saggiamente scritto Piero Gobetti, che non a caso venne picchiato quasi a morte dagli squadristi e si spense, un anno e mezzo dopo, esule a Parigi, in seguito alle ferite riportate in quel massacro.
Se abbiamo attualizzato quel discorso tragico è proprio per non confinarlo, come vorrebbero strumentalmente i soliti noti, a un secolo fa, per comprenderne l’attualità e predisporci a nuove forme di lotta: contro i fascismi contemporanei, i loro sostenitori e chi mente sapendo di mentire in merito a ciò che sta accadendo, in Italia e non solo, a cominciare dalla messa in discussione, sempre più capillare e pervasiva, della libertà d’espressione.
Anche per questo, vogliamo concludere questa riflessione con le battute finali de “Il delitto Matteotti” di Florestano Vancini: “Turati, quando era lontano da Milano, scriveva tutti i giorni alla sua compagna, la cara Anna Kuliscioff. Il gran vecchio, nel dicembre del ’26, con l’aiuto di Carlo Rosselli, Ferruccio Parri, Sandro Pertini e altri, lascerà l’Italia clandestinamente in una fuga avventurosa. Muore a Parigi il 29 marzo 1932. Piero Gobetti, geniale erede della tradizione liberale italiana, morirà il 15 febbraio del ’26, in esilio, a Parigi, e la fulminea malattia che lo stronca, a venticinque anni, è diretta conseguenza dei colpi ricevuti che aggravano la crisi del suo cuore, già affaticato dalla snervante lotta politica e culturale iniziata otto anni prima, a soli diciassette anni. L’8 novembre del ’26, il deputato Antonio Gramsci verrà arrestato e condannato a vent’anni dal Tribunale speciale. Sette anni di carcere fascista lo stroncheranno. Morirà a Roma, nell’aprile 1937, a quarantasei anni. Invitato a lasciare l’Italia da un’alta personalità vaticana, che gli aveva procurato il passaporto e un soccorso in denaro, don Luigi Sturzo era partito per Londra il 25 ottobre 1924. Farà ritorno in Italia nel 1946, dopo ventidue anni di esilio. Giovanni Amendola, già aggredito a Roma prima dell’uccisione di Matteotti, nel luglio 1926, presso Montecatini, sarà attirato in un’imboscata e picchiato a sangue dai fascisti. Conseguenza di questa seconda aggressione: la sua morte, avvenuta l’anno dopo in Francia, dov’era riparato esule e deluso. Per gli assassini si organizzerà a Chieti, nel 1926, un processo burla. L’istruttoria Matteotti è stata tolta dalle mani di Mauro Del Giudice e Umberto Tancredi per essere affidata a magistrati più compiacenti. Difesi da Farinacci, Dumini e gli altri saranno già liberi a meno di due anni dal delitto. ‘Voi volete ricacciarci indietro’ aveva detto Matteotti, e il popolo italiano sarà ricacciato indietro. L’avventura fascista, che durerà vent’anni, porterà la Nazione allo sfacelo”.
Per non dimenticare.