Caro presidente Mattarella,
innanzitutto auguri per i suoi dieci anni al Quirinale. Anni intensi, complessi, a tratti addirittura devastanti. Del resto, venne eletto nel 2015, in un’Italia stanca e affaticata, nel momento in cui Renzi si rese conto di aver bisogno dell’allora minoranza interna del suo partito e, soprattutto, di non poter eleggere come Capo dello Stato una figura accondiscendente nei suoi confronti ma, oggettivamente, secondaria. Era l’Italia turborenziana, con il PD impegnato costantemente a suicidarsi: Jobs Act, Buona scuola, Sblocca Italia, Italicum (prima di allora, mai la legge elettorale era stata approvata con il voto di fiducia, se non nel 1923, ai tempi del Duce e della famigerata legge Acerbo, e nel ‘53, in occasione dell’altrettanto famigerata Legge truffa), fino alla controriforma della Costituzione che pose fine a quella triste parentesi e, sostanzialmente, alla carriera politica del suo massimo interprete, almeno nei panni del protagonista. Ebbene, dieci anni dopo, siamo al cospetto di un’Italia ancora più fragile, ancora più divisa, fiaccata dalla pandemia e dalla miseria che ne è derivata, ulteriormente acuita dall’abolizione del Reddito di cittadinanza e dalle norme anti-sociali, punitive e intrise di ferocia e crudeltà gratuita che sta varando questo governo. Un governo che, tuttavia, non nasce dal nulla, essendo frutto di una decade di errori marchiani da parte dell’opposizione e, in particolare, del suo partito più importante, il quale non ha ancora ritrovato un’identità e un progetto politico all’altezza delle sfide di una stagione caratterizzata dalla crisi globale della democrazia. E qui è indispensabile aprire una parentesi, dolorosa quanto si vuole ma ineludibile. Il governo Draghi, infatti, un segno politico ce l’ha avuto eccome: il liberismo sfrenato, l’anti-statalismo, la riscrittura peggiorativa del PNRR, la pessima redistribuzione dei duecentonove miliardi portati in Italia da Conte, il bellicismo insulso e fine a se stesso, un europeismo di maniera e un atlantismo succube; insomma, il disastro che ha condotto Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, con il plauso della tecnofinanza di cui l’ex governatore della BCE costituisce l’emblema.
Caro Presidente,
lei in questi dieci anni ha incarnato una bussola e un punto di riferimento, sforzandosi di difendere l’unità nazionale in un’epoca segnata dalla disgregazione, dalla violenza e dai tentativi di dividere il Nord dal Sud, i ricchi dai poveri, chi può da chi non può, in barba ai principî cardine della Carta di cui lei è stato garante nei limiti del possibile, al cospetto di una politica sempre più sfiduciata e invisa all’opinione pubblica, il cui rifiuto della partecipazione alle urne – da lei richiamato nell’ultimo discorso di fine anno con la preoccupazione e l’amore per il bene comune che l’argomento merita – rappresenta il simbolo di una disillusione diffusa, da sempre anticamera di tutti i fascismi.
E poi la guerra, questo martirio che sta straziando l’Europa, di cui non si vede la fine, che ci angoscia forse meno di quanto dovrebbe, specie se si considera che nel tempo i conflitti sono diventati due, oggi resi ancora più drammatici dalla presenza, oltreoceano, di un personaggio che ha messo l’Unione Europea nel mirino, puntando a dissolverla e a spartirsene le spoglie insieme alle democrature arrembanti e all’’oligarchia miliardaria che è accorsa a Capitol Hill a baciargli la pantofola, ben cosciente dei vantaggi che di sicuro otterrà da questo appoggio.
Caro Presidente,
neanche lei, probabilmente, si sarebbe immaginato una navigazione così difficile, nel vuoto della politica e della rappresentanza, nella connivenza di un’informazione ormai irriconoscibile, nel collasso del sistema democratico a livello globale, nella sconfitta epocale dell’Occidente, nell’avanzare delle nuove tecnologie senza porre al centro del processo di sviluppo l’essere umano, in un tutti contro tutti che sta minando le basi del nostro stare insieme.
Conosciamo le sue prerogative e sappiamo che mai verrebbe meno al suo compito. Di sgrammaticature istituzionali, del resto, ne vediamo già abbastanza e le siamo, dunque, grati per aver sempre conservato un certo stile e quel garbo indispensabile per prendersi cura della comunità nel suo insieme. Nonostante questo, ci permettiamo di esprimerle la nostra angoscia per la Costutuzione posta ogni giorno sotto attacco, per la magistratura sottoposta, a tratti, a un autentico linciaggio, per la disperazione in cui versano le fasce più deboli della società, per il servizio pubblico che ha perso la bussola, e la cui Commissione di Vigilanza è paralizzata dalla maggioranza come mai era accaduto neanche nei momenti più bui della nostra vicenda repubblicana, e per un’opposizione ancora incapace di trovare un Idem sentire, come un secolo fa, quando i distinguo, anche in seno ai deputati aventiniani, favorirono la definitiva ascesa del fascismo, di cui quest’anno ricorre il centesimo anniversario, con il tristemente celebre discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925. .
Probabilmente, Presidente, scriviamo queste note di sconforto in quanto l’ottimismo, di questi tempi, ci appare davvero fuori luogo, immersi come siamo in un contesto di disumanità e mancanza di prospettive. Ci pervade un senso d’amarezza, di sconfitta, come se tutto fosse perduto e nemmeno la sua indubbia autorevolezza fosse più in grado di salvarci dalla resa generale di un Occidente che ha smarrito se stesso.
I migliori auguri, ribadiamo, e grazie per ciò che fa, con l’auspicio che la sua voce non manchi mai di farsi sentire, neanche quando dovesse risultare necessario opporsi con il dovuto vigore a una discesa agli inferi che, al momento, sembra irrefrenabile, mentre la Consulta, di cui lei è stato per anni membro, è costretta a lavorare a ranghi ridotti per la mancata elezione dei nuovi giudici e il Parlamento è fermo perché la maggioranza non sa e non vuole assumersi le proprie responsabilità di fronte al Paese.
“Questo è il tempo che ci è dato vivere”, ma ammetterà che è veramente atroce.
Iscriviti alla Newsletter di Articolo21