“Donne donne donne: è scabroso le donne studiar, son dell’uomo la disperazion…”
Ma saranno loro a salvarci, a compiere la rivoluzione silenziosa, già in atto, per rimettere in sesto questo mondo dissestato e travagliato. E sarà una rivoluzione epocale paragonabile a quella cristiana. La liberazione dalla schiavitù, da quel potere maschile che, infragilito fin quasi a sparire, non riesce più a rintracciare la strada. Le donne hanno già vinto, in una scia di sangue, ma hanno già vinto. In questa fine e inizio anno scorgo segnali inequivocabili: il primo voglio credere che abbia il volto do Cecilia Sala prigioniera senza colpa nel raccapricciante regime degli Ayatollah: il secondo è il film di Ferzan Ozpetek che consiglio di correre a vedere nelle sale perché è un capolavoro.
Due squilli di tromba verso il riscatto.
Il cinema italiano ha trovato un vero regista in questo ex ragazzo turco che ha studiato al Centro Sperimentale e dopo un cursus honorum promettente ma vacillante ha imboccato la strada maestra. Diamanti è il titolo assolutamente da vedere in queste festività, il pubblico l’ha capito a fiuto, non ho mai visto tanta ressa al cinema, soprattutto di donne, che una volta entrate non vorrebbero più staccarsi dallo schermo. C’è una battuta nel film, che adesso vi sembrerà enigmatica ma il cui valore scoprirete da soli nel corso della proiezione, e che recita così: “Quanto mi piacciono gli uomini che fumano!” E la sala in meno di un attimo, come a un segnale convenuto esplode unanime, di slancio, intrattenibile, in una risata e in un applauso fragoroso, a scena aperta, che mi ha riempito gli occhi di lacrime.
Le donne ormai si parlano tra loro anche soltanto con la mente, non hanno bisogno di parole, la rivoluzione silenziosa è sotto i nostri occhi e nessuno potrà fermarla, sbaraglierà qualsiasi ostacolo e nemico.
Ancora ieri, sui giornali, sui social, era apparsa la fotografia di una donna inginocchiata a terra, completamente avvolta nella sua veste che la priva di qualsiasi identità, Burqa, hijab, niqab o come diavolo si chiami, raccolta in sé, tremante, a testa bassa, presa a scudisciate da un infame aguzzino codardo, prepotente e violento che le impartisce la ‘sua’ legge a mazzate. Basta! Basta!
Un’immagine che non vogliamo più vedere, che deve sparire dallo scenario del mondo se l’Occidente è ancora degno del suo nome. E se non lo è, se non è in grado di esprimere più i suoi valori più alti, vuol dire che si apriranno altre strade, ma donne massacrate, lapidate, addirittura murate dietro le finestre secondo i recentissimi dettami dei talebani e di altri carnefici loro simili; donne mutilate, donne a cui viene reciso il clitoride, donne infibulate, accoltellate, straziate, sepolte vive, non dovranno più esistere se il genere umano ha ancora un senso. E mi illudo, anzi sono certo che lo ritroverà.
Il sanguinario regime di Teheran ha compiuto un ultimo errore e spero che si sgretolerà per questo ennesimo abuso nei confronti di una ragazza innocente: il sorriso pulito, fiero intelligente di Cecilia, opererà il miracolo con cui ci auguriamo si apra il Nuovo Anno. Forza, diamoci sotto, benvenuto 2025!
Ma iniziamo da capo. Ho aperto l’articolo citando La Vedova Allegra, un’operetta di Franz Lehár, benché il salto da allora a oggi sia vertiginoso, meno tuttavia di quanto possa apparire. Mi domando perché mi sia tornato inconsciamente alle labbra e lo fischiettassi in sordina uscendo dal cinema, in che modo ci riguardi.
Era un empito di allegria, perché Ozpetek finalmente ha fatto centro, anche lui come tutti debitore all’artista riminese; e dopo tanto girarci intorno, è diventato testimone di sé stesso in nome di un neo-irrealismo di vena felliniana che sta recando nuova linfa al cinema italiano.
Dopo Napoli-New York, ecco Diamanti, un altro film da correre ad applaudire, in cui Ozpetek si pone al centro della scena, come autore; e ricorrendo verosimilmente a una trama molto personale, quasi privata: è lui il bambino che ha in mano la sfera di cristallo con dentro il pesciolino porta fortuna. Con la lievità saltellante di un’operetta, ci racconta la messa in scena di una vicenda cinematografica – siamo dunque dalle parti del film nel film – che riguarda la sartoria Canova, negli anni Settanta atelier romano di costumi per lo spettacolo in cui lavoravano soltanto donne. Un gineceo dominato con polso di ferro dalle due sorelle Canova che nascondono un terribile, dolorosissimo, irriferibile abuso.
Il regista chiama a raccolta il fior fiore delle attrici italiane note, notissime e meno note che finalmente escono da una opacità di maniera per stagliarsi sulla scena come non le avevamo mai viste. Perché finalmente dirette da un vero regista ispirato, abile nell’utilizzarle come strumenti delicatissimi, trarne le note giuste, donando loro una presenza scenica, una credibilità, un talento sconosciuti.
Non se ne abbiano le signore, e neppure i signori, ma la performance dell’attore dipende quasi esclusivamente dal regista. Il resto è mestiere, incolore recitazione. Ozpetek riesce a compiere il miracolo di elevare ognuna all’accordo del diapason, con un risultato travolgente. A cominciare da Mara Venier, ma chi l’avrebbe mai detto!, in una interpretazione di travolgente umanità.
Ora sappiamo che il nostro cinema può farcela, la sua potenzialità esiste ed è prorompente. Anni fa il settimanale L’espresso, mandò a chiedere a Fellini, per uno di quei suoi questionari volanti, come si distingue un film bello da uno brutto.
“Cosa rispondiamo?” Chiesi a Federico. La risposta fu elementare e immediata:
“Un film è bello se è diretto da un autore, è brutto se l’autore non c’è.”
Con Diamanti siamo finalmente di fronte a un film d’autore. La trama? Non c’è, è solo un pretesto, azzeccatissimo, perché il regista possa raccontare il suo flusso di coscienza sullo sfondo infallibile di una sartoria cinematografica, l’impareggiabile officina in cui nascono i costumi e quindi i personaggi: qualsiasi indumento indossi l’interprete per entrare in scena, è deciso a monte dal costumista e dal regista, e cucito a misura.
Nella quarta puntata dei Mestieri del Cinema, dedicata ai costumi, introduco così l’argomento:
Il reparto dei costumi è il più vagheggiato perché è spumeggiante, un laboratorio di sartoria in eterno fervore, a capo del quale domina la figura di uno stilista eterodosso, esperto di moda corrente ma allo stesso tempo monarca di un regno senza confini, riconosciuto soltanto dal mondo della celluloide, dove convivono tutte le epoche della storia, ma anche della non storia, luoghi e tempi immaginari, fantasy, fantascienza, iperuranio.
L’aspetto dell’atelier è quello facilmente immaginabile: i modelli di carta sparsi sui tavoli, i rotoli di stoffa, il picchiettare delle macchine da cucire, i manichini, le grandi forbici da taglio, i cuscinetti degli spilli, i gessi ovali e piatti, gli specchi a tre ante, i drappi, i rocchetti, i nastri, i bottoni, tutti accatastati insieme lungo le vaste tavole sostenute dai cavalletti. Il clima è elettrizzante, pervaso da quell’eccitazione operosa mista all’allegria e al cicaleccio che è tipica di un consesso di donne, garrule e complici in tutto, nello scherzo, nel riso, nel commento. Attori e attrici se ne beano distendendo i nervi, felici e coccolati.
Ozpetek racconta tutto ciò spingendo in primo piano e rendendo protagoniste le lavoranti della sartoria, generalmente invisibili, e regalando a ognuna la sua storia privata, le sue angustie, i suoi segreti, i problemi reali ed esistenziali in cui si dibattono con inesauribile coraggio. Riuscendo a compiere, credetemi, un concerto senza precedenti. Non è tanto importante, per quanto emozionante e coinvolgente, ciò che succede nei 135 minuti di pellicola, ma l’esito espressivo, la meraviglia che ci magnetizza, ci conquista, per come viene dipanato il racconto, per come la storia prenda forza dalle sue proprie viscere, per come la Decima Musa riesca di nuovo a intonare un canto che quasi s’era smarrito.
Benvenuto 2025 con questo film di Ferzan Ozpetek che onorando le donne restituisce anche agli uomini una ricostituente pozione di dignità.