A dispetto dei non pochi e vari tentativi di ricondurlo a un responsabile ripensamento, Nicolas Maduro ha infine spergiurato dal ponte di comando d’un Venezuela le cui malridotte istituzioni sono state da lui stesso portate alla completa illegalità attraverso un’ormai comprovata e sfacciata frode elettorale: la presidenza trasformata in prepotenza. Nessun capo di stato più o meno portatore d’una investitura democratica è intervenuto alla cerimoniale messa in scena di Caracas, prova ne sia che c’erano solo il cubano Diez Canel e Daniel Ortega dal Nicaragua. Presenti invece e oratori di prima fila il segretario generale del Foro dei paesi esportatori di gas, l’algerino Mohamed Hamel, e il suo omologo per l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, Haitham Al Ghais, del Kuwait, che hanno trionfalmente inneggiato alla “fratellanza e alla crescita economica” alimentate dalle fonti energetiche. Il loro clamoroso protagonismo ci introduce a una meno superficiale spiegazione della tragica impunità di Maduro e alle incerte ma assai preoccupanti conseguenze che ne derivano per i già pericolanti equilibri internazionali.
E’ appena una mezza verità (anzi, assai meno), che a sostenere il potere di Maduro siano le forze armate venezuelane. ll circuito di corruzione grazie a cui il despota di Caracas mantiene il loro favore mercenario viene dalla disponibilità della grande clientela occidentale all’acquisto delle immense risorse naturali del paese caraibico. Nel 2024, attraverso la Chevron e altre compagnie, il Venezuela ha venduto agli Stati Uniti 300mila barili di crudo al giorno, fino a sostituire l’Arabia Saudita come loro massimo fornitore. In quanto dopo lo scandalo dell’imbroglio elettorale dello scorso luglio, l’amministrazione Biden ha semplicemente dimenticato di rinnovare la sanzione che vietava ogni commercio con il Venezuela, in precedenza “provvisoriamente sospesa” per favorire la liberazione di detenuti politici e garantire uno svolgimento regolare delle elezioni presidenziali. Cosi che i clienti statunitensi (e non solo) ne hanno approfittato per intensificare gli acquisti aggiungendo inoltre gas al petrolio. Sono gli aspetti paradossali che non possono non suscitare amara ironia, malgrado -a ben osservare- in simili circostanze non manchino mai.
Il candidato oppositore, Edmondo Gonzales Urrutia, 73 anni, rifugiato all’estero per sfuggire alla persecuzione di Maduro, secondo dati incompleti ma assai estesi, autentici e comunque gli unici fin qui resi pubblici, sarebbe il legittimo presidente eletto. Ha detto che nel petrolio ci sono la salvezza e la dannazione del Venezuela, si tratta di saper scegliere. In 12 anni di potere, Maduro ne ha fatto una costante e cieca espropriazione a fini privati, dimostrata dalla recessione e inflazione che hanno caratterizzato l’economia, dall’impoverimento di massa che degli oltre 30 milioni di abitanti ne ha indotto almeno 8 milioni all’espatrio (non c’è grande paese grande latinoamericano che non ne abbia accolti a centinaia di migliaia). Favorendo un processo interno di privatizzazione a pezzi dello stato, di appropriazione progressiva di quanto (bene o male amministrato che fosse) apparteneva e appartiene giuridicamente alla cosa pubblica e quindi ai cittadini tutti, in favore di singoli interessi personali e di gruppi. Un saccheggio di dimensioni senza precedenti nella storia del Venezuela, le cui ricchezze naturali pur conoscono da sempre le ineguaglianze degli scambi internazionali.
Il Venezuela rappresenta in tempo e forme reali -potremmo dire: tragicamente pedagogiche-, un’esemplificazione di come le inique modalità cristallizzate dal secondo dopoguerra ad oggi nei commerci tra primo e terzo mondo, abbiano rovesciato soprattutto su quest’ultimo i crescenti costi invisibili e tuttavia concretissimi del deterioramento non solo ambientale (danno di cui stiamo prendendo appena recentemente piena coscienza), bensì anche degli apparati politico-istituzionali. Ma al contrario del passato, non si può più ritenere che si tratti di un problema essenzialmente loro. Il progressivo rafforzamento negoziale dei grandi gruppi privati transnazionali rispetto all’autonomia dei singoli stati, cui abbiamo assistito con il processo di globalizzazione, si riflette ormai proporzionalmente ovunque. Senza più impedire che sul lungo periodo l’approfondimento delle disuguaglianze all’interno di ciascun territorio-mercato e tra questo e gli altri produca distruzioni analoghe negli stessi paesi centrali, trascinando alla precarietà estrema la stabilità delle loro massime istituzioni nazionali. Il dissesto è vistosamente comune e alla prova dei fatti in corso prevederne il peggioramento un’ovvietà.