Alvaro Zerboni è rimasto il mio Direttore dalla prima volta che l’ho incontrato. Dirigeva l’edizione italiana di Playboy e mi chiamò a collaborare con racconti erotici alla leggendaria rivista di nudi, che onore! In America, sotto la guida del fondatore Hugh Hefner, il magazine che ci aveva regalato ragazze senza veli da stordire, da mozzare il fiato, aveva anche collezionato ai tempi d’oro alcune tra le firme più prestigiose della letteratura statunitense.
A quell’epoca mi capitava di scrivere storie incandescenti, dotate di una straripante carica di erotismo. Avevo pubblicato con un certo successo, per Sperling & Kupfer, il mio primo romanzo “L’amore in corpo”, riecheggiando nel titolo Le Diable au corps di Raymond Radiguet, un autore francese prodigioso, morto appena ventenne nel 1923, l’anno stesso in cui fu pubblicato il suo capolavoro.
Se non l’avete letto correte ai ripari: è la storia di una giovane donna sposata che intrattiene una relazione adultera con un ragazzo di sedici anni mentre il marito combatte al fronte nella Grande Guerra. Uno scandalo epocale, sia per la narrazione esplicita degli incontri intimi, senza censure, sia per il tema pruriginoso reso ancora più scottante dal tragico sfondo bellico. Due decenni dopo, nel 1947, lo scandalo riesploderà con altrettanto clamore nella trasposizione cinematografica di Claude Autant-Lara, interpretata da Gerard Philipe e Micheline Presle.
Il mio romanzo era pervaso in ogni pagina dal delirio dei sensi, ed era stato Federico Fellini, con cui avevo già collaborato alla sceneggiatura di “Intervista”, a insistere perché lo pubblicassi, anzi a propiziarne egli stesso l’uscita in libreria. “L’amore in corpo” ebbe successo, con ben tre ristampe, ma non raggiunse le vette che la sua audacia avrebbe meritato. Si disse che era troppo in anticipo sui tempi.
Anche i racconti che scrissi su Playboy ebbero un vivace consenso, e mi consentirono di stringere un rapporto di immediata intesa e simpatia con Alvaro Zerboni, un gentiluomo d’altri tempi, affabile, generoso, che in molteplici settori dell’editoria popolare era stato in Italia un geniale precursore. Aveva alle spalle esperienze esaltanti in Francia, in America Latina, in Sud Africa, un fuoriclasse nell’ambito della graphic novel, adorato da tutti i migliori disegnatori Argentini, e in seguito dagli emuli di casa nostra, a iniziare dall’impareggiabile Hugo Pratt.
In Italia Zerboni aveva fondato riviste di fotoromanzi, magazine scandalistici, e poi le edizioni della Lancio che non conobbero tramonto, avendo lanciato Ornella Muti e Laura Antonelli da fotomodelle romantiche a dive dello schermo.
Negli anni Ottanta era stato l’inventore di L’Eternauta, mensile di comic art, racconti avveniristici disegnati da una palestra di strepitosi talenti, in particolare sudamericani, nei quali lo stesso Fellini si immergeva con infantile golosità a ogni nuova uscita.
Zerboni, classe 1925, aveva conosciuto il futuro regista quando, ancora agli esordi, collaborava con Roberto Rossellini alla sceneggiatura di “Roma Città Aperta”. Frequentavano entrambi gli uffici di produzione della Nettunia Film, gestiti dalla contessa Chiara Politi, moglie morganatica del Re Fuad d’Egitto, circuita chissà con quali arti da Rossellini. Nello stesso stabile, anzi sullo stesso piano, lavorava a testa bassa una equipe di valenti disegnatori ingaggiati per realizzare il soggetto di un cartone animato scritto proprio da Fellini, Hallo Jeep!, in cui si raccontava con spirito scanzonato e surreale l’amore tra una jeep e un carrarmato.
Del cartoon si è persa ogni traccia, nessuno sa che fine abbia fatto, nonostante vi lavorassero campioni dell’animazione come Luigi Giobbe, Niso Ramponi detto Kremos, Franco Coarelli, e lo stesso Achille Panei ideatore dell’impresa.
Tra loro c’era anche il giovane Zerboni, apprendista di fumetti, che mi raccontava:
“Vedevo Fellini discendere lo scalone già con la sua sciarpa intorno al collo e il cappello spostato all’indietro. Io che ero alle prime armi, lo guardavo affascinato perché tutte le settimane leggevo i suoi raccontini sul Marc’Aurelio, oppure ascoltavo le scenette che scriveva per la radio e ne ero proprio entusiasta.”
Una volta il Nostro aveva addirittura assistito a una telefonata in cui Giulietta comunicava al marito la nascita del loro figlio Federichino, e Federico balbettava goffe battute di spirito, strangolato dalla commozione.
Era l’immediato dopoguerra, quando si stavano rimescolando i destini della nazione e per i giovani c’era un intero mondo da ricostruire; bastava impegnarsi, rimboccarsi le maniche e scegliere la strada più affine. Fellini sarebbe diventato da lì a poco il più celebre regista cinematografico del Novecento, Zerboni una leggenda nel campo dell’editoria.
Quando ci siamo incontrati nella redazione di Playboy, sulla Tiburtina, Alvaro era un signore nella sua piena vigorosa maturità, alto, dritto, elegante. Mi prese cordialmente a benvolere; da parte mia ascoltavo incantato i suoi racconti di una stagione che non avevo vissuto ma la cui energia mi si trasmetteva come una contagiosa scossa elettrica. La generazione che mi aveva preceduto mi sembrava animata da uno slancio, un fiuto, uno spirito creativo che stava ormai svaporando, come un buon liquore in una bottiglia priva di tappo.
Con Zerboni prendemmo a frequentarci a ogni buona occasione con rinnovato piacere; sempre accarezzando l’idea di mettere insieme un progetto che ci consentisse di lavorare fianco a fianco. Avevamo una montagna di programmi, di sogni, di iniziative da realizzare, soprattutto riferiti alle sue storie inedite, una più affascinante dell’altra.
Ciò che mi conquistava nel suo stile di scrittura era l’immediata capacità di comunicazione, un talento esercitato nelle vignette con i balloon, quella sintesi espressiva tipica di tutti gli scrittori transitati dai disegni a fumetti, non escluso Fellini. Una scioltezza nel dosare i dialoghi, una naturalezza nell’uso del lessico, che mi emozionava e destava anche una sana invidia. Leggevo i libri di Zerboni, i suoi racconti, e quasi li studiavo per carpirne il segreto.
Le sue novelle erotiche, brevi, filanti, con risvolti a sorpresa, mi apparivano dei capolavori di abilità. Era uno sceneggiatore nato.
Così nel primo decennio del duemila, quando approdai alla redazione di un quotidiano in terra di Romagna, congegnai un’impresa da poter finalmente condividere con lui.
Insieme a Gianni Celli, editore de La Voce, e al direttore Franco Fregni, due segugi di razza nella carta stampata, avevamo deliberato di lanciare Il Gioco del Cinema, una iniziativa che costituisse un divertimento per i lettori ma anche un’opportunità speciale per i giovani di entrare nel mondo della celluloide.
L’iniziativa prendeva lo spunto da un progetto cinematografico a cui stavo lavorando insieme a Zerboni. Un’importante emittente ci aveva richiesto una serie di telefilm di genere erotico da mettere in onda all’inizio della notte televisiva, quando finivano i programmi istituzionali e subentravano le maratone trasgressive delle ore piccole, una sorta di terrain vague, una zona franca al suo sorgere, già molto gettonata.
Le trasmittenti, specialmente satellitari, nel ventaglio di offerte dei loro programmi riservavano fasce sempre più ampie dedicate all’erotismo, un genere assai richiesto dal pubblico delle pay-TV.
Un intrattenimento che nulla aveva a che fare con i canali pornografici, di acting love, come vengono chiamati i rapporti sessuali eseguiti dal vivo di fronte alla cinepresa, eccitanti da guardare all’inizio, ma per loro stessa natura ripetitivi e alla fine tediosi.
L’erotismo invece si effonde dalla mente, dai pensieri morbosi, dalle situazioni scabrose, dalle provocazioni spudorate, dalla fantasia febbrile, dall’equivoco sconcio, dalla sorpresa maliziosa, diciamolo pure, dalla cultura. Rappresenta e incarna il mistero del desiderio, tutto ciò che precede l’atto sessuale e lo stimola, lo asseconda, lo rende irrefrenabile, ma pur sempre attraverso una dimensione ludica filtrata dall’immaginazione.
L’eccitazione dei sensi è una componente organica, costitutiva, del racconto salace, piccante, irriverente, brillante, di cui noi italiani vantiamo tradizioni secolari che risalgono all’immenso Giovanni Boccaccio autore del Decameron; ma anche a tanti altri narratori non meno nobili, dal delicato Bandello, all’incorreggibile Aretino, dall’acuto Machiavelli, ai raffinati umanisti privi di ogni scrupolo quali Poggio Bracciolini o Enea Silvio Piccolomini, futuro papa Pio II.
E per spostarci al campo delle immagini, vanno almeno ricordati con ammirazione gli eccelsi pittori del Rinascimento, primo tra tutti Giulio Romano, in grado di esaltare la bramosia amorosa come pochi altri al mondo; e a sua emulazione gli illustratori di sfrenata lussuria del Settecento e dell’Ottocento. Un retaggio visivo che non si è certo disperso e, a distanza di secoli, raggiunge la sua più popolare espressione nell’arte del fumetto contemporaneo.
Da Hugo Pratt, a Milo Manara, a Leone Frollo è fiorita una vera e propria scuola, e non a caso in quell’area veneziana dove la sana licenziosità, secondo gli esperti del genere, è pervicacemente di casa. Basti ripensare a Giorgio Baffo, eccelso poeta lubrico e intuibile ispiratore dello stesso Frollo, disegnatore raffinato, acquarellista, vignettista di straordinaria eleganza e sensualità.
A lui appunto ci eravamo rivolti con Zerboni per interpretare, attraverso tavole originali, i nostri racconti cinematografici: un’assoluta leccornia per appassionati e collezionisti dell’illustrazione licenziosa.
Pubblicando settimanalmente i nostri trattamenti – un termine che nel cinema definisce lo stadio intermedio di scrittura fra il soggetto letterario e la vera e propria sceneggiatura – ci ripromettevamo anche di rendere familiare al pubblico inesperto l’articolazione del linguaggio cinematografico fin dal suo nascere.
Il lettore si sarebbe trovato a confronto con situazioni erotiche apertamente spregiudicate, perlopiù giocose, vitalistiche, fantasiose e rese divertenti da sorprendenti trovate a chiusura di ogni novella. Nell’intreccio, volutamente semplice e a portata di tutti, rispettavamo l’unità di luogo, cioè lo svolgersi della vicenda in un unico ambiente, senza concedere spazio ad altri personaggi oltre i protagonisti.
Lo snodo della trama si basava sull’azione e naturalmente sul dialogo, proponendo circostanze comuni della vita in cui a ognuno è capitato di trovarsi, o perlomeno ha sognato di potersi trovare. Spesso infatti è proprio l’inaspettato che, presentandosi senza alcun preavviso, ci riserva il gusto ancora più acuto di una felicità rubata, di un capriccio ordito dal destino.
Zerboni, in tutti questi anni, non ha mai smesso di scrivere, e nella sua produzione letteraria hanno continuato a stagliarsi inconfondibili i racconti, rapidi, veloci, sfacciati, saporiti, libertini, innegabilmente eccitanti: esattamente il genere di culto di cui è stato maestro.
La sua nuova raccolta si intitola, ça va sans dire, Racconti a luce rosse. Il Decameron al tempo del Covid-19, concepito e realizzato nel fatidico 2020 con la complicità del lockdown quando, assediati dal virus, eravamo tutti prigionieri tra le mura domestiche. L’allusione intenzionale era riservata a Boccaccio e all’epidemia di peste da cui l’immortale certaldese trasse ispirazione per il suo capolavoro.
Questi recentissimi racconti non si discostano dunque per umore, stile, inventiva, giocosità e infallibile erotismo, dal consueto corredo dell’autore. E sarà per molti una sorpresa ritrovare il virtuoso Zerboni a solfeggiare disinvoltamente sulla sua tastiera preferita. Grazie anche, bisogna aggiungere, all’editore Francesco Coniglio, che con tempestiva rapidità ha voluto acquisire l’opera al suo catalogo, notoriamente rigoglioso delle pubblicazioni più trasgressive apparse in Italia negli ultimi decenni. Un atto dovuto il suo, da discepolo affettuoso e devoto, una zampata da fuoriclasse in tempi in cui assistiamo inermi alla mortificazione dei rapporti intimi consegnati malinconicamente alla droga. Le novelle di Zerboni riportano in auge la fantasia, l’unico, potente, autentico, infallibile allucinogeno di ogni eccitamento sessuale da quando l’essere umano ha messo piede sulla Terra.
Ecco dunque in questo nuovo Decamerone, le canoniche dieci giornate durante le quali una disinibita congrega di amiche e amici, rinserrati piacevolmente in una villa sul mare, danno libero sfogo alle loro pulsioni. Rivivetene nella lettura le prodezze senza porre limiti all’immaginazione, “la più alta facoltà del pensiero umano”, come sosteneva il non mai abbastanza compianto Federico Fellini.