La vicenda che sta attraversando il festival di Sanremo non può (non deve) essere giudicata solo nei confini della manifestazione canora.
Quest’ultima ha una data di inizio così lontana -1951- da farne un programma divenuto rilevante anche per la sua longevità. Non per caso, insieme alla trasmissione dei mondiali di calcio o alle finali del basket (e poco più) proprio l’evento della riviera delle rose assurse alla categoria dei capitoli del palinsesto da tutelare evitandone la diffusione criptata, ovvero a pagamento.
Il motivo per cui fu inviata a Bruxelles che richiedeva nella seconda metà del secolo scorso simile lista – era acceso già all’epoca il dibattito sui limiti da apporre ai servizi pubblici-, pure l’indicazione del festival era chiara: Sanremo aveva acquisito via via un tono nazionale e popolare, in grado di unire le diverse anime del paese e di mettere davanti al video ceti sociali e generazioni distanti.
Anzi. Proprio la fruizione allargata, figlia del ricorso a device contigui ma differenti dallo schermo classico, ha realizzato il fenomeno ben descritto dal mediologo Roger Silverstone della domestication, ovvero la dimensione inclusiva e tranquillizzante dell’offerta che risponde ai desideri di massa della fruizione. Sanremo, insomma, è un appuntamento che la storia della radiodiffusione ha reso imperdibile, come pochi programmi sono riusciti a diventare.
Non solo. Sanremo è la Rai e la Rai è Sanremo. Così è, se vi pare, si potrebbe aggiungere.
Il tribunale amministrativo della Liguria lo scorso 5 dicembre (sentenza n.843) ha messo in discussione l’affidamento diretto alla Rai da parte del Comune dell’evento medesimo.
In verità, da tempo si era avvertito il gruppo dirigente di viale Mazzini che doveva avviare con coraggio la prima mossa, aprendo la strada a una gara pubblica per l’affidamento delle giornate canore. Del resto, la lunga esperienza acquisita avrebbe certamente avuto un peso nella scelta. Tuttavia, le indicazioni europee sulla concorrenza sono evidenti e meglio sarebbe stato se proprio la Rai avesse dato prova di apertura e rigore.
Adesso, il servizio pubblico, contro la cui esclusiva presentò un ricorso nel 2023 il presidente dell’Associazione fonografici italiani Sergio Cerruti, è costretto a difendersi, pur essendo salva l’edizione del 2025, che avrà la direzione di Carlo Conti dopo la stagione di Amadeus.
Attenzione, il caso del passaggio del conduttore rinomato alla Nove, dove realizza un ascolto assai inferiore a quello realizzato con omologhi programmi alla Rai, ammonisce sull’effetto dei passaggi da una stazione all’altra: la televisione generalista si regge sulla continuità e sull’abitudine e i cambi di casacca non pagano granché.
Tale dinamica è stata già vissuta da protagonisti importanti della scena, mentre l’avventura felice di Fabio Fazio è l’eccezione che conferma la regola. «Che tempo che fa» si regge, d’altronde, sia sulla bravura di chi sta alla guida sia sulla notorietà degli ospiti che passano su tavoli e poltrone. Ma qui si aprirebbe un discorso non banale sul ruolo delle scuderie che procacciano interlocutori altrimenti ben difficilmente raggiungibili.
Vedremo che accadrà, tra ricorsi e contro ricorsi. C’è da osservare, però, che la ferita viene inferta ad un’azienda con un vertice monco e piuttosto indebolita.
Infatti, le reazioni finora sono sembrate alquanto flebili.
Non è in questione, ovviamente, la legittimità di un ricorso e ancor meno la potestà di un TAR, che deve svolgere con autonomia e indipendenza il proprio lavoro. Sappiamo che oltre al testo c’è sempre il contesto. A prescindere da Sanremo, infatti, lo sguardo va messo con un grandangolo sull’insieme degli accadimenti. E osserveremo che nell’età della cavalcata nerastra l’azienda si è decisamente indebolita: ascolti e share, raccolta pubblicitaria e autorevolezza nel dibattito.
Sarà un cattivo pensiero (del resto, si avvicina l’indulgenza plenaria del Giubileo), ma torna in mente la storia inquietante di Tim- Telecom: graffi di qua, graffi di là e privatizzi. Non con il mercato, bensì con i saldi. Speriamo di sbagliare.
(Da Il Manifesto)