Questo 2024 si chiude con cinquantasei guerre e conflitti nel mondo. Il numero più alto dopo la fine della seconda guerra mondiale. Sono 92 i paesi coinvolti e le vittime sono prevalentemente civili, donne e bambini. Sempre in Paesi i cui popoli soffrono fame, malattie, violenze e violazione dei diritti umani più “sacri”: in Africa, in Asia, America latina, vicino a noi in Europa, con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin da quasi tre anni; il conflitto Israele Palestina che si è pericolosamente già esteso a quasi tutto il medio oriente. Il sequestro e l’arresto di Cecilia Sala in Iran il 19 dicembre scorso ne è un’allarmante conferma; la notizia è stata tenuta “riservata” per una settimana. Ci stringiamo a lei con affetto e trepidazione. Pensiamo che il lavoro di giornalista nei luoghi difficili sia molto importante per capire che cosa sta succedendo nel mondo. Le stiamo accanto.
Quest’anno Betlemme ha il volto delle migliaia di bambini palestinesi sterminati dalle bombe israeliane e anche morti di freddo di fame e di malattie, dopo l’attacco terrorista di Hamas del 7 ottobre 2023 con 1400 morti (molti dei quali bambini e giovani, perfino un neonato) e la cattura di 240 ostaggi. Per mano degli “Erode” di questo nostro tempo: i responsabili di Hamas e il governo di Netanyahu che, con parole inequivocabili evoca un vero e proprio genocidio programmato ed in esecuzione ogni giorno. La violenza sulle donne è “l’altra faccia della guerra”, una vera emergenza in tutto il mondo con modalità diverse ma sempre crudeli. Oltre il 30% delle donne ha subito almeno una violenza sessuale durante la sua vita, anche nel nostro paese dove i femminicidi nel 2024 sono stati cento fino alla fine di novembre, un numero quasi identico a quello degli scorsi tre anni ma con una carica di violenza e crudeltà molto superiore che ha coinvolto figli e nascituri. È cresciuta enormemente la violenza diffusa, oltre a quella della criminalità e delle diverse mafie, in varie parti del nostro paese e in Europa: di gruppi/bande spesso di giovanissimi, con la presenza di minorenni, anche di ragazze. Una riflessione si impone per ricercarne le ragioni. Illuminanti in proposito le parole del Presidente Sergio Mattarella:
La politica e la diplomazia appaiono sovente accantonate dalla scelta delle armi, operata da chi ha dato avvio alla guerra. Le istituzioni sovranazionali ne risultano indebolite. Le nostre nuove generazioni si confrontano con stupore e disorientamento con le immagini e le parole della guerra. Occorre una approfondita riflessione sui danni che questa deriva emotiva può produrre nel lungo periodo sulle donne e sugli uomini di domani, sui loro sentimenti, sulla loro percezione della realtà e sul modo di organizzare la convivenza.[ …] Perché le immagini trasmesse dalle guerre seminano in profondità, anche in chi non ne è direttamente coinvolto, paura, inimicizia, divisione, odio, barriere di ogni tipo. Abituandosi a convivere con l’odio si rischia di diffonderlo, di renderlo inestinguibile. Qualcosa, purtroppo, è già cambiato. Credo che possa essere reale un nesso tra quei sentimenti e il crescere della violenza intorno a noi, nelle nostre società.[ …] Occorre reagire, per riaffermare con forza e convinzione le ragioni della pace, della civiltà, della convivenza, di un mondo libero, solidale, interdipendente. Non possiamo tornare indietro, non possiamo rassegnarci al disordine e al conflitto permanente. La pace e la cooperazione sono sempre possibili. Su questa frontiera oggi misuriamo la vitalità e la forza delle nostre democrazie, della civiltà del diritto, dei valori di libertà, di giustizia, di uguaglianza che sono stati e sono i mattoni con cui abbiamo costruito la nostra pacifica convivenza. (dal discorso di saluto del Presidente della Repubblica 17 dicembre 2024).
Per la prima volta dal 2009, le spese per l’acquisto di armi e servizi militari sono aumentate in tutte e cinque le regioni geografiche definite dal SIPRI, l’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma, con aumenti particolarmente elevati in Europa, Asia, Oceania e Medio Oriente. Attualmente i Paesi che dichiarano di possedere armi atomiche sono: Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Regno Unito, Pakistan, India e Corea del Nord. A parte si colloca Israele, che ufficialmente non ha mai né confermato né smentito di possedere armi nucleari.
Abbiamo cercato di evidenziare il valore della pace e la necessità della sua costruzione che ha animato le donne, di cui abbiamo tracciato il profilo, nella rubrica «Dalla parte di Lei». Abbiamo avuto conferma che per le donne c’è stata e c’è una ricerca, una riflessione su cosa sia necessario fare per “ripudiare” la guerra, nella convinzione che non basta essere contro la guerra. Tutti a parole sono contro la guerra. La pace necessita di un percorso che smantelli l’idea che «la guerra sia la continuazione della politica con altri mezzi».
Adriana Chemello ci immerge e ci coinvolge nel pensiero di Virginia Woolf.
MGG
Pensare e costruire la pace
di Adriana Chemello
In questo appuntamento di fine anno della nostra rubrica «Dalla parte di lei» vogliamo continuare a riflettere su come sia possibile pensare la pace in tempo di guerra, attraverso parole autorevoli che ci indichino la via da percorrere, attraverso figure autorevoli di grandi «maestre» del pensiero. Alla figura di Bertha von Suttner, che abbiamo rivisitato il mese scorso, vogliamo accostare quella di Virginia Woolf (1882-1941), una delle scrittrici più importanti della letteratura del ventesimo secolo, un punto luce ineguagliabile nella storia del pensiero di origine femminile.
Nel giugno 1938, alla vigilia della seconda guerra mondiale, Virginia Woolf aveva pubblicato un saggio con il titolo Le tre ghinee, divenuto ben presto un pamphlet contro la guerra, ma soprattutto un manifesto di denuncia del legame esistente tra sistema patriarcale, militarismo e regimi totalitari. Il pamphlet, a cui stava lavorando già da un paio d’anni, prese forma sull’onda lunga delle emozioni provocate dalla morte del nipote Julian, arruolatosi volontario con i repubblicani spagnoli per partecipare alla guerra di Spagna. Rispondendo alle sollecitazioni di alcuni intellettuali che chiedevano la sua adesione ad una associazione per prevenire la guerra, Virginia Woolf scrive: «il modo migliore per aiutarvi a prevenire una guerra non è di ripetere le vostre parole e seguire i vostri metodi, ma di trovare nuove parole e inventare nuovi metodi». Una risposta imprevista e «controcorrente» con la quale lei, «figlia degli uomini colti» evidenzia la sua estraneità, in quanto donna, ad ogni forma di potere e di processo decisionale. Da questa situazione di marginalità, Virginia osserva con lucidità il mondo degli uomini, la loro ostentazione di forza e prevaricazione e trasforma il suo posizionamento “al margine” in un punto di forza per prevenire la guerra e rifondare nuove modalità relazionali tra uomini e donne: «Come donna non ho patria, come donna la mia patria è il mondo intero».
Qualche anno dopo, nell’agosto del 1940, quando ormai la guerra si sta propagando in Europa, Virginia ritorna sul tema della guerra con un saggio breve dal titolo: Pensieri di pace durante un’incursione aerea. Sono pensieri che nascono in presa diretta, mentre gli aerei della Wehermacht tedesca scorrazzavano sopra il cielo di Londra, scaricando il loro micidiale carico di bombe.
Virginia sente affiorare in sé la «coscienza della specie» che la incalza a «pensare la pace» come rifugio sicuro ed efficace contro il potere distruttivo di quegli aerei che ronzano nella notte sopra la sua testa. Si interroga su come sia possibile «lottare senza armi per la libertà» e trova subito la risposta: «Possiamo lottare con la mente; fabbricare delle idee». E aggiunge: «Lottare mentalmente significa pensare contro la corrente e non a favore di essa».
La sua riflessione si sofferma poi sulla parola “disarmo”, considerata condizione imprescindibile per la pace («Non ci saranno più armi, né esercito, né marina, né forza aerea nell’avvenire. I giovani non saranno più addestrati a combattere con le armi»). Ma Virginia ha consapevolezza che scrivendo su un pezzo di carta, fossero pure gli atti ufficiali di primi ministri e capi di stato, la parola «disarmo» non ci si può illudere che spariscano all’improvviso armi, eserciti e tutto ciò che avvalla l’uso di questi strumenti di morte. Quand’anche gli uomini, unendo insieme i loro sforzi, avessero scritto la fatidica parola «disarmo», resterebbe aperto un problema ben più complesso: trovare una nuova occupazione per tutti i giovani eroi, per i «guerrieri». Andando al cuore del problema, Virginia scrive:
Otello non avrà più occupazione, ma egli sarà sempre Otello. Quel giovane aviatore in cielo non è spinto soltanto dalle voci degli altoparlanti; è spinto anche dalle voci che ascolta in sé, antichi istinti, istinti incoraggianti e nutriti dall’educazione e dalla tradizione.
La domanda inevasa che tormenta e interroga Virginia è come sia possibile togliere le armi dalla mente di questi giovani. Il “disarmo” non si realizza dall’oggi al domani: va preparato gradualmente, esige una trasformazione sociale, economica e delle coscienze, in parole semplici bisogna far mettere radici ad una forma mentis alternativa a quella dominante: la guerra è una follia degli uomini, uscire dalla logica patriarcale – aveva sostenuto nel saggio Three Guineas (Le tre ghinee) – è togliere ossigeno allo spirito che conduce alla guerra. Ma per cancellare la guerra dalla storia del mondo:
dobbiamo aiutare i giovani […] a togliere dai loro cuori l’amore delle medaglie e delle decorazioni. Dobbiamo creare attività più onorevoli per coloro i quali cercano di dominare in se stessi l’istinto combattivo, […]. Dobbiamo compensare l’uomo per la perdita delle sue armi […] aprire l’accesso ai sentimenti creativi. Dobbiamo fabbricare felicità. Dobbiamo liberarlo dalla macchina. Dobbiamo tirarlo fuori dalla sua prigione.
Riecheggia qui il pensiero del filosofo americano, di tradizione liberal, William James che all’inizio del secolo scorso, in una conferenza tenuta alla Stanford University di Boston, aveva per la prima volta parlato di The moral equivalent of war, cioè l’“equivalente morale della guerra”, le attività più onorevoli della guerra.
Di qui la necessità di liberare l’uomo (e la donna) dalla corazza culturale che essi stessi si sono costruiti addosso, come vuol significare l’aneddoto riportato in conclusione dei Pensieri di pace di Virginia Woolf:
L’altro giorno, uno dei piloti riuscì ad atterrare in un campo qui vicino. In un inglese abbastanza tollerabile, disse ai suoi catturatori: “come sono contento che la lotta sia finita!”. Poi un inglese gli diede una sigaretta, una inglese gli offrì una tazza di te. Questo starebbe a dimostrare che se si riesce a liberare l’uomo dalla macchina, il seme non cade in un suolo completamente sterile. Il seme può essere ancora fertile.
L’immagine generativa del seme indica l’inizio di una nuova vita. Il seme della pace è per Virginia un «germe di verità» che può ancora germogliare se nutrito da una efficace e persuasiva educazione alla pace, come ritroviamo nell’accorato invito di Maria Montessori:
Tutti parlano di pace ma nessuno educa alla pace. A questo mondo, si educa per la competizione, e la competizione è l’inizio di ogni guerra. Quando si educherà per la cooperazione e per offrirci l’un l’altro solidarietà, quel giorno si starà educando per la pace.
Perché, come leggiamo nel preambolo della costituzione dell’Unesco: «Le guerre cominciano nella mente degli uomini ed è nella mente degli uomini che bisogna costruire la difesa della pace».
Connettendosi, forse inconsapevolmente, ai Pensieri di pace di Virginia Woolf, nel 1991 quando stava per scoppiare la guerra del Golfo, Maria Zambrano affida ad un breve saggio, che intitola Pericoli di pace, i suoi «pensieri impensati» sulla necessità della pace:
Perciò non ci sarà uno stato di pace autentica finché non sorgerà una morale vigente ed effettiva indirizzata alla pace, finché le energie assorbite dalla guerra non si incanaleranno, finché l’eroismo di quelli che concentrano nella guerra il compimento della propria vita non incontrerà vie nuove, finché la violenza non sarà cancellata dai costumi, finché la pace non sarà una vocazione, una passione, una fede che ispira e illumina. E certamente alla nostra cultura occidentale non mancano i fondamenti religiosi e morali per tutto ciò.
Facciamo nostre le parole di papa Francesco che nella sua prima omelia del 2024 asseriva:
Il mondo ha bisogno di guardare alle donne per trovare la pace, per uscire dalle spirali della violenza e dell’odio, e tornare ad avere sguardi umani e cuori che vedono.
Se Simone Weil nei suoi scritti ha più volte sostenuto che la guerra è «la forma massima di prevaricazione», è altrettanto vero che in ogni conflitto sono le donne a pagare il conto più salato. «La guerra non è un gioco da donne» sostiene la cantautrice israeliana Yael Deckelbaum, tra le fondatrici del movimento Women Wage Peace e autrice dell’inno Prayer of the mothers, che ha fatto il giro del mondo ed è diventato il manifesto della marcia della speranza. Ed è pertanto dalle donne che, negli ultimi anni, sta prendendo forma una «resistenza creativa» con nuovi modelli relazionali e di convivenza, fondati sull’inclusività e sul dialogo, per far «vincere la pace».
Segnaliamo, tra le altre, l’iniziativa del quotidiano «Avvenire» che dall’8 marzo scorso ha dedicato spazio nelle pagine del giornale e sul proprio sito web alle «Donne per la pace», attraverso testimonianze di una ventina di donne che hanno espresso un impegno per far progredire una cultura di pace nelle realtà in cui vivono. Tra le voci di donne che raccontano e si raccontano, troviamo Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace nel 2003, la prima iraniana e la prima donna musulmana a ottenere questo riconoscimento; Nadia Murad, giovane curda di etnia yazida, premio Nobel per la pace nel 2018, fondatrice di un’organizzazione no-profit per la ricostruzione di comunità in crisi e in difesa delle vittime della violenza sessuale; la giornalista filippina Maria Ressa, premio Nobel per la pace nel 2021; le negoziatrici in processi di pace come la nordirlandese Monica Mc Williams e la filippina Miriam Coronel Ferrer, fino alla attivista iraniana per i diritti umani e Nobel per la pace nel 2023, Nargesd Mohammadi. Una costellazione di voci femminili che hanno costruito «attività più onorevoli della guerra» e che pertanto rappresentano esempi luminosi su cui si può costruire una cultura di pace.