In un mondo afflitto da guerre, tragedie di varia natura e odi apparentemente destinati all’eternità, papa Francesco ha aperto la Porta santa della Basilica di San Pietro, restituendo alla speranza un senso, una dignità e una concretezza. L’indomani, i frati di Assisi hanno organizzato un concerto rivoluzionario, che ha stravolto la tradizione natalizia e portato nelle case di milioni di italiane e di italiani non solo i canti tipici delle nostre celebrazioni ma anche brani significativi per il mondo arabo, dilaniato da un conflitto insensato e acuito dalla furia ceca di governanti-carnefici, disposti a tutto pur di riaffermare un potere che sentono sfuggir loro via. Infine, nel giorno di Santo Stefano, il Pontefice si è recato in un luogo insolito: il carcere di Rebibbia, dove ha deciso di aprire una porta santa particolare, affinché la luce della gioia, della pace e del riscatto sociale entrasse anche là dove regna il peccato e l’espiazione della colpa.
È lo stesso Papa che nel 2015 aveva inaugurato il Giubileo della Misericordia a Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana, illuminando le periferie del mondo con la forza di un messaggio di predicazione evangelica che parla al cuore dei credenti e dei non credenti ma anche all’anima dei credenti in altre religioni, secondo il principio della fratellanza universale che costituisce un caposaldo del suo pontificato.
Del resto, se Bergoglio subisce l’ostracismo, per non dire il vero e proprio astio, di una parte dei media e dei potenti della Terra è perché, anziché benedire i cannoni, richiama gli esseri umani al valore della concordia, seguendo la dottrina della Chiesa in senso letterale. È qui che si incontrano il miglior cattolicesimo democratico e la concezione laica dello Stato, la cristianità e il socialismo, il Vangelo e la Costituzione, la fede e l’azione politica. Ed è qui che scompaiono, invece, il cinismo, la diffidenza, la crudeltà gratuita e i muri che da troppe parti vengono eretti, in questo tempo di conflitto permanente, di furia disumana e di perdita dello spirito comunitario che solo ci potrebbe salvare dalla catastrofe.
Papa Francesco incarna oggi la speranza degli ultimi, contrastando, con la sua fragilità fisica e la sua grandezza umana e spirituale, e i due aspetti sono strettamente correlati, la barbarie dilagante pressoché ovunque. Già Wojtyla, del resto, nel 2000 si era recato a regina Coeli per prendersi cura delle “anime dannate”. Francesco, tuttavia, ha deciso di compiere un passo ulteriore: non solo l’incontro ma la piena redenzione dei detenuti. Da qui l’appello, fortunatamente ascoltato, al presidente uscente Biden affinché concedesse la grazia ai condannati a morte, commutandola in ergastolo, prima dell’arrivo di un personaggio che dello sprezzo verso la vita umana, la persona e qualunque genere di diritto ne ha fatto la propria bandiera. Trentasette condannati a morte su quaranta, a quanto pare, potranno continuare a vivere. Ci spiace per gli altri tre e ci opponiamo fermamente alla logica che se lo meritino, in quanto autori di stragi e crimini efferatissimi. La pena di morte è inconcepibile sempre e comunque, e non solo nell’ottica dei credenti, che lasciano derivare da Dio la fonte della vita, ma anche dei non credenti, che credono però nell’articolo 27 della Costituzione, nei valori di Beccaria e Verri e nell’idea secondo cui nessuna persona, neanche la più colpevole, possa essere mai ritenuta irrecuperabile.
E così, la musica che affratella una donna russo-ucraina, una palestinese e un violinista israeliano, il tempio del francescanesimo che si trasforma in casa della collettività, l’abbraccio corale di un’idea di giustizia e di etica che va oltre ogni barriera e il pellegrinaggio negli inferni del dolore e della sofferenza, questo insieme di gesti e rituali parla a una moltitudine e ci indica una strada.
L’auspicio, senza retorica, è che questo sincero messaggio di umanità, contro tutte le armi e le forme di violenza, raggiunga i cuori non tanto di chi siede ai posti di comando, su molti di loro sappiamo di non poter fare affidamento, ma dei milioni di cittadine e cittadini che sono ancora in grado di indignarsi per le città ucraine ridotte in macerie, per il martirio di Gaza e per gli orrori sparsi in giro per il mondo.
Sarebbe bello, in concreto, se chi ha sbagliato potesse sentirsi meno solo e iniziare, o proseguire, un cammino di recupero, se il coraggio di questo mite apostolo della parola di Dio potesse contagiare chi non crede più in niente e in nessuno e se il suo Dio d’Avvento potesse trasformarsi in un’illuminazione per animi inariditi dalla ferocia.
A papa Francesco, ai costruttori di ponti e ai messaggeri di pace, giunga pertanto la nostra gratitudine. Se questo mondo, dopo il Giubileo, sarà migliore, e vogliamo coltivare l’illusione nonostante tutto, sarà senz’altro merito di un uomo che, oltre che in Dio, crede fortemente nella persona umana, nella sua unicità e nella sua irriducibilità a un mero calcolo statistico.