L’ultimo romanzo di Ottavio Olita, L’incontenibile forza della gentilezza, che mescola sapientemente finzione e realtà, prodotti dell’immaginazione e fatti di cronaca, personaggi frutto della fantasia e riferimenti a persone che fanno invece parte della cerchia delle conoscenze e delle amicizie dell’autore, ha come motivo conduttore un’idea che esprime quella che può essere considerata una delle questioni cruciali del nostro tempo. Per spiegare di cosa si tratti dobbiamo prendere in esame un breve testo del 1954 di Norbert Wiener dal titolo Invention: The Care and Feeding of ideas, già tradotto in Italia nel 1994 da Bollati Boringhieri, e recentemente riproposto, per iniziativa di Andrea Bonaccorsi, da Rubbettino.1 In questo suo saggio Wiener mostra che per una grande classe di fenomeni della realtà (in particolare, il vivente e il tecnologico, cioè l’artificiale e l’umano) il controllo della validità e dell’efficacia si articola secondo orizzonti temporali molto differenziati, per cui se cerchiamo feedback in tempi brevi a problemi progettuali che richiedono tempi lunghi non arriviamo mai allo stato desiderato. Si tratta di un problema di grande portata e ineludibile, in quanto la sopravvivenza dell’umanità dipende dalla sua capacità di dedicare una parte del suo pensiero e delle sue strategie alle imprese a lungo termine. Come regolarle, allora, in modo che questa strategia possa trovare un certo grado di conferma della propria validità?
Wiener sottolinea in proposito che molte delle idee che hanno dato origine al progresso tecnologico contemporaneo hanno richiesto tempi molto lunghi di maturazione e sono diventate realtà solo grazie alla compresenza contingente di inventività individuale, condizioni favorevoli della domanda, ambienti culturali e istituzionali ricettivi. Le imprese hanno funzionato come sistemi a retroazione molto efficaci per problemi nei quali il rischio è calcolabile. Ma, e qui viene il problema, il sistema economico contemporaneo assoggetta tutte le idee a un unico feedback estremamente corto, il profitto aziendale. Che di per sé può essere considerato un buon meccanismo di retroazione per molti problemi della società, segnalando agli imprenditori cosa correggere in corso d’opera, ma solo se il rischio è calcolabile. Ma non per tutti i problemi della società, in particolare non per quelli nei quali il calcolo non è possibile. Qui l’autore elenca i problemi che operando solo con retroazioni corte non potranno mai essere risolti, e sembra – come sottolinea opportunamente Bonaccorsi nel suo Commento al testo – di sentire un osservatore contemporaneo: inquinamento, fame, scarsità di acqua, ignoranza, sovrappopolazione. Siamo, come detto, nel 1954, quasi settant’anni fa. L’utilità a lungo termine di idee che hanno una trama fatta di coerenza e rigore, ma anche di immaginazione e di temerarietà, si spinge troppo in là nel tempo per poterla valutare con criteri diretti e immediati di resa, che sono gli unici ai quali fa riferimento la società contemporanea. Oltre al profitto di cui si è detto, infatti, la validità delle idee e dei progetti viene oggi valutata dal mondo della politica sulla base del consenso immediato a cui danno luogo, e persino la destinazione delle risorse alla ricerca scientifica viene sempre più decisa sulla base della possibilità di utilizzo a breve dei risultati ottenuti in sede teorica, con conseguente spiccato predominio della ricerca applicata rispetto a quella di base. Come uscire da questa impasse dalla quale dipende il futuro dell’umanità, in quanto senza strategie basate su visioni a lungo termine non si puà pensare di inquadrare correttamente e affrontare con efficacia i pericoli che la minacciano?
Olita con il suo romanzo ci fornisce risposte concrete a questo dilemma. Innanzi tutto, con il suo linguaggio, accuratamente scelto per esprimere questa esigenza di adeguata durata del tempo e nel tempo. Va qui ricordata una profonda osservazione di Jung, il quale cataloga le parole proprio in base a questo criterio. Egli concentra la sua attenzione su quelle che hanno quella che possiamo senza forzature considerare un’impronta di carattere femminile, non nel senso del linguaggio di genere, ma per un loro specifico carattere da lui chiamato pregnanza. A differenza dei significanti che rimandano direttamente, in modo quasi automatico e sempre trasparente, al loro significato, che viene quindi colto in modo immediato, le parole di questo genere sottolinea sono anche “cifra”, vale a dire qualcosa che, racchiudendo un significato dentro di sé, ne rivela bensì la presenza, ma nasconde al contempo e perennemente la sua natura. In tal senso esso rimanda bensì a qualcosa, ma non nella modalità con cui un significante rimanda a un significato, bensì nella modalità con cui un significante avverte l’interprete della presenza di un significato nascosto. Aliquid obscure aliquid in se ipsum abdit. Si tratta quindi di qualcosa assimilabile allo stato di gravidanza, che manifesta la presenza di un contenuto le cui caratteristiche restano per il momento occulte.
Nell’accezione che ne fornisce Jung queste parole non sono mai perfettamente decodificabili, hanno una natura prettamente simbolica in quanto, come il segno in generale, svolgono la funzione di rinvio, ma a differenza di esso viene verso qualcosa non ancora determinato, e da cui, proprio per questo, non può essere sostituito. Ma, per quanto quest’altra cosa che può subentrare a esse e rimpiazzarle non risulti visibile e percepibile e quindi manchi, a essa le parole caratterizzate dalla pregnanza fanno comunque riferimento. Per penetrare in questo significato ed esplicitarlo occorre tempo, in quanto bisogna esercitare uno sforzo cognitivo che richiede pazienza e riflessione prolungata.
Questo tipo di linguaggio ha di conseguenza il merito di porci concretamente di fronte al bisogno di non essere schiavi dell’immediatezza e del breve periodo, per cui è in grado di per sé di evocare l’esigenza di affidarsi a contenuti che non possono essere assimilati e gestiti con un tempo che sia un semplice battito di ciglia.
L’uso di parole pregnanti è una condizione necessaria ma non sufficiente per far emergere con la dovuta consistenza questo bisogno. Per renderne ancora più manifesta e pressante la presenza, Olita popola la sua narrazione di persone reali che fanno della loro vita la testimonianza dell’impossibilità di fare a meno di una progettualità caratterizzata da visioni non viziate e inquinate dalla catastrofe dell’immediatezza. Sono eroi della vita quotidiani, donne e uomini che dedicano la loro vita agli altri, al bene comune, con un altruismo sentito come un dovere e di cui fanno dono con piacere. Ce ne sono, e tanti, nella nostra quotidianità, solo che restano per lo più invisibili per l’abitudine ormai consolidata da parte del mondo dell’informazione e della comunicazione a concentrare l’attenzione esclusivamente sugli aspetti negativi e deteriori della società, e non anche su quelli che ne potrebbero dare un’immagine migliore. Sono magari i nostri vicini di casa, gli educatori, gli insegnanti dei nostri figli e nipoti, i volontari dei centri di accoglienza e di assistenza capaci di incarnare nel loro vissuto il riferimento a un principio mirabilmente posta da Hegel in una sua profonda riflessione:
“L’educazione spirituale, l’intelligenza moderna, producono nell’uomo questa opposizione che lo rende anfibio in quanto egli deve vivere in due mondi che si contraddicono l’un l’altro, cosicché anche la coscienza erra in questa contraddizione e, sballottata da un lato all’altro, è incapace di trovare per sé soddisfazione nell’uno o nell’altro. Infatti, da un lato noi vediamo l’uomo prigioniero della realtà comune e della temporalità terrena, oppresso dal bisogno e dalla necessità, angustiato dalla natura, impigliato dalla materia, in fini sensibili e nel loro godimento, dominato e lacerato da impulsi naturali e da passioni, dall’altro egli si eleva a idee eterne, a un regno del pensiero e della libertà, si dà come volontà leggi e determinazioni universali, spoglia il mondo della sua animata, fiorente realtà e la risolve in astrazioni, in quanto lo spirito fa valere il suo diritto e la sua dignità solo nell’interdire e maltrattare la natura, a cui restituisce quella necessità e violenza che ha subito da essa”2.
Questa sua natura anfibia pone l’uomo di fronte alla costante esigenza di raggiungere e mantenere un equilibrio attivo e dinamico con il mondo in cui si vive, anche se non è facile, evitando di cadere, da un lato, nella tentazione di restare al di sopra della realtà, con l’utopia, dall’altro, al di sotto, con la rassegnazione. Quanto sia ardua questa sfida lo dimostra quella che Hegel considerava la malattia di certe manifestazioni di utopia romantica, l’ipocondria, quell’alternanza di fasi di furore progettuale e di esaltazione e di fasi di depressione e di rinuncia che, a suo giudizio, colpisce tutti coloro che, per non volere fare i conti con la “riottosa estraneità”3 del mondo, con la sua “burbera ritrosia”, che si concede solo a chi sa dominarlo effettivamente, pretendono di saltare oltre la realtà, di proiettarsi nell’ideale e nel possibile senza passare attraverso il tempo presente e lo spazio in cui, di fatto, si svolge la loro esistenza quotidiana. Costoro considerano l’ideale a portata di mano e s’impegnano, di conseguenza, in una frenetica e febbrile attività per realizzarlo: salvo poi concludere, dopo ripetuti e inevitabili fallimenti, che esso è irraggiungibile e sprofondare, di conseguenza, nella rinuncia a cercare, nell’inerzia più totale e nella depressione.
I protagonisti del romanzo di Olita sono esponenti di quella che possiamo chiamare un’utopia concreta, operativa. Persone come don Ettore Cannavera, che hanno profondamente assimilato e fatta propria le lezione che Fëdor Dostoevskij trasse dalla sua esperienza nella prigione di Omsk, nella quale fu rinchiuso, luogo nel quale ebbe modo di rendersi conto dell’estrema vitalità dell’uomo, che si abitua a tutto pur di vivere, e dell’esigenza di disponibilità al cambiamento, mettendo da parte pregiudizi, valutazioni consolidate, opinioni affrettate L’esperienza di quegli anni di carcere fu per lui estremamente istruttiva e contribuì a far emergere alcuni temi fondamentali che saranno al centro della sua successiva attività letteraria, come egli stesso attesta nel romanzo del 1862 che documenta questa sua esperienza, Memorie di una casa morta, una successione di storie, una raccolta di racconti di personaggi che Dostoevskij va a interrogare di volta in volta sulle vicende che li hanno condotti in carcere. Sono proprio queste storie e il loro seguito all’interno della galera, a fargli capire l’esigenza di liberarsi da quello che cominciò a chiamare il “catalogo di etichette” e a fargli capire che un simile catalogo lo si deve buttare via, perché le etichette sono un ostacolo alla comprensione di quello che ci circonda: quello che ci circonda lo possiamo comprendere solo liberandoci dai preconcetti e assumendo un atteggiamento di attenzione, di apertura e di rispetto nei confronti di chiunque, anche dei rei e degli assassini: “Del resto ecco che io mi sforzo ora di classificare tutto il nostro reclusorio per categorie; ma questo è possibile? La realtà è infinitamente multiforme, in confronto con tutte le deduzioni del pensiero astratto, anche con le più sottile, e non tollera nette e vistose distinzioni. La realtà tende allo spezzettamento. Una vita nostra speciale c’era anche da noi, una vita qualunque sia pure, ma c’era, e non soltanto quella ufficiale, ma anche una vita interiore, nostra propria”4.
Senza questa disponibilità al cambiamento risulta impossibile capire come, in un ambiente così infernale come il carcere, possano sbocciare e consolidarsi il sentimento di umanità, la solidarietà, la fratellanza e persino l’amore nell’uomo e per l’uomo. Quelli rinchiusi in questa casa sono degli assassini, dei furfanti, la feccia dell’umanità. Eppure “quanta giovinezza era stata sepolta inutilmente tra queste pareti, quante grandi forze erano qui perite invano! Bisogna pure dir tutto: questa gente era pur gente straordinaria. Essa è pure, forse, la gente più capace, più forte di tutta la gente nostra. Ma sono perite invano delle forze possenti, sono perite in modo anormale, illegale, irrevocabile. E chi ne ha colpa?5”
Questa sua esperienza quotidiana di vita, basata sul rapporto di ogni giorno con gli altri reclusi, fece maturare in lui l’interesse per un tema, quello del riscatto e della rinascita, che non a caso costituirà uno dei motivi conduttori dei romanzi che scriverà una volta tornato in libertà: “‘Chi sa? Questi uomini forse non sono a tal segno peggiori di quelli che sono rimasti di là, fuori del reclusorio’. Pensavo proprio questo e io stesso crollavo il capo in risposta al mio pensiero, e intanto – Dio mio – se avessi solo saputo allora fino a che punto anche questo pensiero era giusto!”6
Dunque, anche un reo, il colpevole anche di un delitto che suscita orrore e induce al disprezzo nei confronti di chi lo ha commesso, può cambiare, diventando un uomo giusto, un uomo buono, un uomo degno del massimo rispetto. È questa la constatazione che Dostoevskij non può esimersi dal fare e che inizialmente provoca in lui un sentimento di stupore e meraviglia: “E soltanto in appresso, dopo esser vissuto già abbastanza a lungo nel reclusorio, concepii appieno tutta l’eccezionalità, tutto l’imprevisto di una simile esistenza, e me ne meravigliai sempre più. Confesso che questa meraviglia mi accompagnò in tutto il lungo periodo dei miei lavori forzati: io non ho mai potuto rassegnarmici”7.
Questo stupore di fronte a un vissuto del tutto imprevisto, la straordinarietà della vita nel reclusorio, fu per lui un fatto talmente importante da fargli capire quanto pericoloso e fallace sia arrendersi all’ordinarietà, al prevedibile, essere schiavi di abitudini che inducono a giudicare gli altri sulla base di una conoscenza superficiale e delimitata, nello spazio e nel tempo, del loro vissuto e impediscono di vedere ciò di cui Dostoevskij comincia invece a rendersi pienamente conto in seguito all’allargamento dei propri orizzonti provocato dall’esperienza nella “casa morta”: l’incommensurabilità dello spazio dell’anima dell’uomo singolo, che è qualcosa di assolutamente sconfinato: “Ecco perché a prima vista la galera non aveva potuto presentarmisi in quel vero aspetto in cui mi si presentò in seguito. Ecco perché ho detto che, anche se guardavo tutto con un’attenzione così avida, così intensa, tuttavia non potevo discernere molte cose che mi stavano proprio sotto il naso”8.
È proprio in virtù di questa incommensurabilità che l’uomo dal quale ti aspetti un determinato comportamento, perché ti sei convinto che abbia una natura che lo costringe a pensare e ad agire in quel modo, ti sorprende comportandosi in modo completamente diverso rispetto a queste tue attese. Questo significa che quell’uomo non è irrimediabilmente schiavo del suo passato, non è imprigionato nel meccanismo di una concatenazione di eventi che lo intrappolano privandolo di ogni alternativa rispetto alla previsioni basate sulla proiezione, nel presente e nel futuro, di ciò che ha fatto in anni più o meno remoti, non è vincolato una volta per tutte alla bassezza degli atti che ha compiuto, ma può riscattarsi, rinascere, diventare un uomo totalmente diverso: “Questa non è una fantasia della mia immaginazione. Appena è stato permesso a questa povera gente di vivere un poco a modo suo, di divertirsi da uomini, di passare anche solo un’ora di vita non da reclusi, ecco che l’uomo si trasforma moralmente, non fosse che per pochi minuti soltanto…”9.
È proprio la speranza la chiave di quel cambiamento che viene riscontrato da chi lo sa cogliere: “Gli uomini mandati lì per tutta la vita, anche quelli erano inquieti o angosciati, e certamente ciascuno di loro sognava in cuor suo qualcosa di pressoché impossibile. Questa perenne inquietudine, che si palesava in modo sia pur silenzioso, ma visibile, questa strana veemenza e impazienza di speranze talora involontariamente espresse, a volte così prive di fondamento da assomigliare a un delirio e, quel che più colpiva, radicatesi non di rado nelle menti in apparenza più pratiche, tutto ciò conferiva un aspetto e un carattere straordinario a quel luogo, tanto che forse appunto tali tratti ne costituivano il lato più caratteristico. Si sentiva in certo qual modo, fin dal primo sguardo, che così non era fuori del reclusorio. Lì tutti erano sognatori, e questo saltava agli occhi”10.
Questa è la grande lezione che lo scrittore apprende negli anni della sua detenzione, una lezione che lo segna e che ritiene istruttiva per tutti coloro che stanno fuori e che possono permettersi la libertà, e non la valutano tre soldi questa libertà che è un bene così prezioso. Invece chi ne è privo ne capisce in pieno il senso e l’importanza, e proprio per questo sente il bisogno di riconquistarla nella propria anima, non volgendosi mai al passato, non pensando mai alla loro pena, ma pensando invece alla loro storia come uomini che hanno sognato qualcosa e sono ancora capaci di sognare e di sperare, aggrappandosi a quanto di buono, nonostante tutto, rimane in loro: “Io per il primo sono pronto ad attestare che, anche in mezzo alla maggiore ignoranza e al maggiore avvilimento, ho trovato fra questi sofferenti i tratti del più fine sviluppo psichico. Nel reclusorio ti accadeva a volte di conoscere una persona da più anni e di pensare che quello fosse un bruto, e non un uomo, e di disprezzarlo. E tutt’a un tratto veniva casualmente un momento in cui l’anima sua, in uno slancio involontario, si apriva all’esterno e voi ci vedevate dentro una tale ricchezza, un tale cuore e un sentimento, una così chiara comprensione della propria e dell’altrui sofferenza che era come se vi aprissero gli occhi e nel primo momento non credeste nemmeno a ciò che voi stessi avevate veduto e udito”.11
Ma dove la vanno a prendere tanta energia interiore, tanta voglia e capacità di rigenerarsi questi uomini? Sempre nello stesso posto: nella loro umanità, nella loro dignità di uomini, che è inestirpabile, al punto che uno non la può togliere, non se ne può privare, anche se è un recluso condannato a vita, alla catena, nel peggiore dei modi: “Ogni uomo, chiunque egli sia e per quanto avvilito, pur tuttavia, anche se istintivamente, anche se inconsapevolmente, pretende che si rispetti la sua dignità umana. Il detenuto medesimo sa di essere un detenuto, un reietto, e conosce il suo posto di fronte ai superiori, ma con nessun marchio, con nessuna catena, potrai fargli dimenticare che è un uomo. E poiché egli è in realtà un uomo, di conseguenza bisogna anche trattarlo umanamente. Dio mio! Un trattamento umano può umanizzare perfino qualcuno su cui l’immagine di Dio si è da gran tempo offuscata. Appunto questi ‘disgraziati0 son da trattare nel modo più umano. È questa la salvezza e la gioia loro”12.
Questo sentimento insopprimibile di umanità è dunque un bene irrinunciabile sempre e dovunque per l’uomo: anche in un ambiente così infernale come il carcere è una cosa che non può mai venir meno. Per questo, nel romanzo che documenta questa sua straordinaria esperienza di vita, Dostoevskij non parla della schiavitù o della bassezza degli uomini, parla invece della libertà, strettamente legata a quel sentimento di umanità, frutto dell’incommensurabilità dello spazio dell’anima, in virtù della quale l’uomo singolo riesce a smarcarsi dai pregiudizi e a stupire, a sorprendere, a comportarsi in un modo che non è il risultato di un’infernale ”coazione a ripetere” ma è invece l’espressione della sua capacità di sperare e di sognare.
Questa capacità è la chiave per conoscere veramente il prossimo ed entrare in sintonia con lui, superando l’iniziale diffidenza e la cecità che ne scaturisce: “Chiudevo gli occhi e non volevo osservare. Fra i miei cattivi, odiosi compagni forzati, non notavo i buoni, gli uomini capaci di pensare e di sentire, nonostante tutta la disgustosa corteccia che esteriormente li rivestiva. In mezzo alle parole velenose non notavo a volte la parola gentile e affettuosa, tanto più cara in quanto pronunciata senza alcun secondo fine e non di rado venuta direttamente da un’anima che più di me aveva patito e sofferto”.13
L’esperienza di quegli anni nella “casa morta”, diventata per lui anche “casa dei sogni”, lo colpisce a tal punto che quando lascerà il reclusorio per tornare nel mondo libero dirà che quando si era voltato indietro aveva provato quasi una specie di rimpianto.
La lezione che ne trasse fu la volontà di vivere, fermamente espressa dal ripetere di continuo a sé stesso: “Io voglio vivere e vivrò”, come fanno ogni giorno i reclusi che non si arrendono, che sono in grado di continuare a sperare e a sognare proprio perché sono capaci di buttarsi dietro di loro ogni tentativo di vendetta e di liberarsi dalla logica del risentimento. Il detenuto sognatore guarda avanti, pensa all’avvenire, spera e capisce che per poterlo fare deve, prima di tutto, imparare a non essere risentito nei confronti di nessuno, a non fare la vittima, a non rimuginare di continuo sul passato, sulla brutta esperienza che ha vissuto. Questa disposizione d’animo, infatti, paralizzerebbe la sua vitalità, il suo stesso sentimento di umanità, rovinandogli il resto della vita e privandolo della libertà di volgersi al nuovo, alla vita che comunque gli rimane da vivere e che comincia proprio quando si è capito che è possibile rinascere.
Ettore Cannavera ha dedicato la sua vita a rendere possibile questa volontà di rinascita dei giovani detenuti, educandoli in modo da spegnere in loro ogni desiderio di tornare a delinquere: non è certo un caso che la recidiva di coloro che escono dalla sua Comunità sia minima, contrariamente a quella di coloro che sono stati reclusi in una delle tante affollate prigioni in cui vigono condizioni di vita tutt’altro che umane e rieducative.
Gli esponenti di “Mosaico di Popoli”, protagonisti del romanzo di Olita, sono giovani fatti della stessa pasta: persone, giovani volontari che si dedicano all’accoglienza e all’inserimento degli immigrati, memori di ciò che scrive Michail Bachtin in alcuni passi fondamentali del suo libro su Dostoevskij14, quelli nei quali, approfondendo la lezione del grande scrittore, sottolinea: “Non l’analisi della coscienza sotto forma di un io unico e unitario ma analisi appunto dell’interazione di molte coscienze dotate di uguali diritti e di pieno valore. Un’unica coscienza è priva di autosufficienza e non può esistere. Io prendo coscienza di me e divento me stesso solo svelandomi per l’altro, attraverso l’altro e mediante l’altro. I più importanti atti che costituiscono l’autocoscienza sono determinati dal rapporto con l’altra coscienza (col tu). Il distacco, la disunione, il rinchiudersi in se stessi come causa principale della perdita di sé. Non quello che avviene all’interno, ma quello che avviene al confine della propria e dell’altrui coscienza, sulla soglia. E tutto ciò che è interiore non è autosufficiente, è rivolto in fuori, è dialogizzato, ogni esperienza interiore viene a trovarsi sul confine, s’incontra con altre, e in questo incontro pieno di tensione sta tutta la sua sostanza. È un grado superiore di socialità (non esteriore, non cosale, non interiore). In questo Dostoevskij si contrappone a tutta la cultura decadente e idealistica (individualistica), alla cultura della solitudine radicale e disperata. Egli afferma l’impossibilità della solitudine, l’illusorietà della solitudine. L’esistenza dell’uomo (sia quella esteriore che quella interiore) è una profondissima comunicazione. Essere significa comunicare. La morte assoluta (non essere) è impossibilità di essere uditi, di essere riconosciuti, di essere ricordati. Essere significa essere per l’altro e, attraverso l’altro, per sé. L’uomo non ha un territorio interiore sovrano, ma è tutto e sempre al confine, e, guardando dentro di sé, egli guarda negli occhi l’altro e con gli occhi dell’altro”15.
Il rapporto di alterità, e dunque di non coincidenza con sé stesso, è pertanto costitutivo dell’io, in quanto non esiste un soggetto rinchiuso e definito nella sua interiorità che poi si apre agli altri. L’io, l’individuo è sempre necessariamente già aperto agli altri, poiché è esso stesso dialogo, rapporto io/altro, che si sviluppa e si costruisce proprio nella relazione e nell’interazione costante con gli altri soggetti individuali e con i soggetti collettivi di cui è componente. Per questo tutti coloro che sono aperti agli altri hanno quel tratto distintivo che Bachtin coglie e definisce con estrema precisione nella sua grandiosa opera del 1965 dedicata a Rabelais e alla cultura popolare, in un passo nel quale spiega che cos’è una forma di vita rigida e perché il carnevale sia così significativo e importante per metterla in discussione e rovesciarla: la rigidità è “la stupida coincidenza con sé stessi”16 ed è appunto questa la caratteristica che la vita carnevalesca tende a dissolvere.
Questo stesso concetto viene da Bachtin trasposto dalla persona all’opera che merita di permanere nel tempo grande, che proprio per questo non può avere un rapporto di “sovpadenie”, di coincidenza con il momento storico in cui è stata scritta, altrimenti rimarrebbe incapsulata e imprigionata in esso e non avrebbe le carte in regola per trascenderlo, sarebbe, se non stupida, banale. La legittimità di questa trasposizione è corroborata dagli appunti degli anni Cinquanta, nei quali egli distingue tra un’“esperienza grande” e un’“esperienza piccola”. Quest’ultima è un’esperienza limitata, povera angusta, egoistica dell’io, del corpo e del mondo, che vale ovviamente sia per la persona, per l’io, sia per le sue opere d’ingegno, per i prodotti del suo pensiero. Invece “nell’esperienza grande, il mondo non coincide con sé stesso (non è ciò che è), non è chiuso e non è compiuto. In esso c’è la memoria, che scorre e si perde nelle profondità umane della materia e della vita illimitata, l’esperienza di vita di mondi e di atomi. E la storia del singolo comincia per questa memoria molto tempo prima rispetto ai suoi atti conoscitivi (al suo “io” conoscibile). […] Questa memoria grande non è memoria del passato (in senso astrattamente temporale); il tempo è relativo in rapporto ad essa. Ciò che ritorna in eterno e ciò che il tempo non restituisce. […]. Il momento del ritorno è stato percepito da Nietzsche, ma è stato da lui interpretato astrattamente e meccanicisticamente. […] Nell’esperienza grande tutto brulica di vita, tutto parla, è un’esperienza profondamente dialogica”17.
I prodotti della cultura, di conseguenza, si suddividono, a giudizio di Bachtin, in due sottoinsiemi: quelli che coincidono con il proprio tempo e quelli che non coincidono con esso, e proprio per questo sono in grado di dialogare anche con tutte le epoche successive e con interpreti appartenenti a esse, i quali vi trovano contenuti che parlano loro, dicendo cose caratterizzate da una perenne attualità. Se lo sdvig, lo scarto che caratterizza la non coincidenza con il proprio tempo viene meno e si spegne l’opera cessa di essere in sintonia con le fasi successive della storia della cultura.
Per tenere adeguatamente conto di questo scarto bisogna essere ex-centrici, porsi, cioè, in una posizione e situazione di “iato”, di non coincidenza, di non identità con sé stessi e con il mondo in cui si vive, per aprirsi al possibile. Paradossalmente solo così, cioè solo andando continuamente oltre sé stessi, al di là della propria identità e del proprio tempo, si riesce a vivere autenticamente il proprio presente. Come scrive Agamben: “Appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma, proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo”; “Contemporaneo è colui che riceve in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo”18.
I personaggi di Ottavio Olita sono del tutto contemporanei in questo senso: dalle pagine del suo romanzo affiora pertanto, come insegnamento profondo, quella nozione di “tempo grande” e lungo necessaria per fare in modo che l’umanità comprenda pienamente e assimili il significato delle attualissime riflessioni di Dostoevskij illustrate, in modo acuto e penetrante, da Tat’jana Aleksandrovna Kasatkina, curatrice, insieme a Elena Mazzola, di una bella edizione italiana di Zapiski iz podpol’ja19. Tra le tante considerazioni pregevoli proposte dalla Kasatkina nella sua lettura del testo ve n’è una, di particolare interesse per la questione che stiamo trattando, che richiama il titolo di una sua raccolta d’interventi: Dal paradiso all’inferno. I confini dell’umano in Dostoevskij20. La conclusione del grande scrittore russo in questa sua opera è che il purgatorio, contrariamente all’idea che ne propone la dottrina cattolica, non è un luogo di purificazione o di pena temporanea, vale a dire la condizione di coloro che, morti nella grazia di Dio, non sono ancora perfettamente purificati e devono quindi completare questo processo al fine di ottenere la santità necessaria per essere ammessi alla visione di Dio. Esso non è qualcosa di definito e statico, bensì il frutto dinamico e instabile delle interazioni tra due mondi diversi, della tensione fra opposti, il bene e il male, per cui è destinato ad assumere configurazioni differenti a seconda che prevalga l’uno o l’altro. Il nostro pianeta, intermedio tra il paradiso e l’inferno, ne è la prova lampante: “qui il diavolo lotta con Dio e il campo di battaglia è il cuore dell’uomo”, per cui può assumere sembianze paradisiache o infernali. Tutto dipende dalle scelte dell’uomo: un paradiso recintato e chiuso è un inferno, un inferno in cui divampi l’amore è un paradiso.
1 N. Wiener, Invention: The Care and Feeding of Idea, The MIT Press, 1993, tr. it. a cura di F. Cicerone. Commento al testo di A. Bonaccorsi L’invenzione. Come nascono e si sviluppano le idee, Rubbettino, Soveria Mannelli 2022.
2 G.W.F. Hegel (1817-1829), Estetica, trad. it. e a cura di N. Merker e N. Vaccaro, Einaudi, Torino 1967, p. 65 (l’evidenza è mia).
3 Ivi, p. 40.
4 F. Dostoevskij, Memorie di una casa morta (1861), trad. it. di A. Polledro, Introduzione di E. Bazzarelli, bur, Milano 2015, p. 350.
5 Ivi, pp. 410-411.
6 Ivi, p. 98.
7 Ivi, pp. 33-34.
8 Ivi, p. 107.
9 Ivi, p. 229
10 Ivi, p. 348.
11 Ivi, p. 351.
12 Ivi, pp. 158.159.
13 ivi, p. 318.
14 M. Bachtin, Problemy tvor
estva Dostoevskogo, Kiev 1929, riedito nel 1963 con il titolo Problemy poetiki Dostgoevskogo, trad. it. Giuseppe Garritano, Einaudi, Torino 1968; trad. della precedente edizione del 1929 a cura di Margherita De Michiel, con introduzioni di Augusto Ponzio e Iris M. Zavala, Ed. dal Sud, Bari,1997.
15 M. Bachtin, Dostoevskji. Poetica e stilistica, Einaudi, Torino 1979, pp. 323-324.
16 M. Bachtin, Tvorčestvo Fransua Rable i narodnaja kul’tura srednevekov’ja i Renessansa, Chudožestvennaja literatura, Moskva 1965, trad. it. di M. Romano, Einaudi, Torino 1979, trad. di M. Romano, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Einaudi, Torino 1979, p. 47.
17 M. Bachtin, “Arte, mondo, memoria, linguaggio”, dalle annotazioni degli anni Cinquanta, in P. Jachia, A. Ponzio, a cura di, Bachtin &… , Laterza, Bari-Roma 1993, pp. 194-195.
18 G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo, nottetempo, Roma 2008, pp. 8-9.
19 F. Dostoevskij, Zapiski iz podpol’ja (1864), tr. it. Scritti dal sottosuolo, a cura di T. A. Kasatkina, E. Mazzola, La Scuola, Brescia 2016.
20 T. A. Kasatkina, Dal paradiso all’inferno. I confini dell’umano in Dostoevskij, a cura di E. Mazzola, Itaca, Castel Bolognese 2012.