Romanzo oniricamente on the road, dove i ricordi si mescolano ai meandri più profondi del nostro essere. Il filo rosso che accompagnerà lettrici e lettori verso qualche ipotetica risposta è racchiuso in una lapidaria frase felliniana: «L’unico vero realista è il visionario». Un viaggio di illuminante bellezza, in un susseguirsi di opportunità talmente intense da farci vivere contemporaneamente su piani dalle dimensioni diverse. Una vera liberazione dello spirito, attraverso l’identificarsi in personaggi maschili e femminili ruotanti attorno a scenari continuamente mutevoli. La provincia italiana, casualmente tra Marche e Romagna, ma potrebbe essere qualsiasi luogo della periferia del nostro paese, viene catapultata a Parigi, in Russia, sconfinando in Honduras. Per ritornare repentinamente al vecchio mulino sul Torbello o al postribolo dell’Orsolina, sperso tra boschi entro cui sembrano far capolino Tonino Guerra, Dino Campana, Sibilla Aleramo o i canti dei poeti vernacolari ai quali Pasolini e Carlo Bo diedero l’aurea di nobiltà. Ne Le stanze dei giardini segreti scaturiscono la saggezza proteiforme del Professore, la conturbante lascivia erotica di Annà – la signora dei capelli rossi – e ancora di Dario, l’uomo che abbracciava gli alberi. Compagni di viaggio, alla ricerca di emozioni e idee per creare giardini all’interno di stanze segrete di un vecchio mulino abbandonato. Compagni di viaggio, lungo i meandri dei misteri della vita, alla ricerca in definitiva di sé stessi.
Il romanzo di Nevio Casadio è un’autentica avvincente avventura dalla prima fino all’ultima riga. Ci si smarrisce e ci si ritrova di continuo, come nel fluttuare, vago, del vivere. Non è lecito dar conto di una trama, perché ognuno costruirà la propria, rincorrendo, inseguendo immagini, colori, odori, suoni, sapori, sentimenti e sensi. O per essere dai medesimi inseguiti. Ognuno riscriverà mille volte le pagine del romanzo estraendole da una sorta di matrioska infinita, spumeggiante fra tempi e spazi passati o da venire. Puer ludens piegato in un continuo trasalimento creatore e creativo. Deus che si manifesta nell’epifania di un qualunque sussulto quantico: sconvolgente come l’unghia di un protagonista capace di mutare di colore in base all’umore ineffabile; o come il rombo dei motori degli stracciai calati nel dramma della storia. Stanze delle meraviglie dunque.
E se da tutta questa umanità vogliamo scorgervi Pasolini, Cavazzoni, Borges, Marquez, Dostoevskij o Carrol dipende soprattutto da noi. D’altra parte gli uno, nessuno, centomila accadimenti mondani non sono percepiti alla stessa maniera dalle nostre arlecchinesche maschere: dalla puttana, alla orsolina; dal fine letterato, alla spia; dall’assassino, all’umile boscaiolo… tutti proiettati su scenari perennemente mossi da un continuo spirare di venti cangianti nei turbini polverosi delle emozioni e degli amori.
LA CHIAVE NASCOSTA – Prefazione di Carlo Verdelli
La chiave è in una frase e ve la consegno subito così non perderete tempo a cercarla, anche se averla tra le mani già prima di cominciare la lettura potrebbe farvi pensare che il più è fatto, e che il mistero che ogni romanzo racchiude lo avete già scoperto e quindi è inutile sobbarcarsi la fatica, o il piacere a seconda dei punti di vista, di affrontare la camminata in direzione della cima, o comunque verso l’esito, che ogni storia in forma di libro contiene.
Ma non sono così malaccorto da rovinare l’avventura che sono stato chiamato a introdurre. La chiave che sto per consegnarvi è come il motorino elettrico nascosto, introdotto di recente sul mercato del mondo comodo, che facilita l’andare in bicicletta per i più pigri o più lenti. Non pedala per voi ma aiuta nell’abbrivio o nei momenti dove i muscoli diventano gelati per un più di stanchezza da sforzo. E allora, ‘sta chiave?
Eccola, lettrici e lettori. È a portata di mano in qualche riga sparsa nelle pagine: vedere, o almeno cercare di vedere, quel che ogni giorno capita di avere sotto gli occhi e non vediamo. È una chiave, questa, che come racconterà una donna facchino di Parigi con l’accento genovese (un po’ di pazienza, la troverete in corso d’opera) “può dare la felicità, come solo può fare una chiave in grado di schiodare una cintura di castità”.
Il punto è scoprire che cosa apre questa chiave, quali serrature, e dove ci porterà il racconto a mano a mano che si schiuderanno porte che nemmeno immaginavamo esistessero e che ci precipiteranno dentro universi che magari sulle prime ci sembreranno sconosciuti e che invece sono composti di molecole di vita che in qualche modo ci appartengono, soltanto mescolate secondo altre regole, seguendo lo spartito della fantasia.
Certamente non a caso l’autore, Nevio Casadio, ha scelto una frase di Federico Fellini come passaporto per questo viaggio: “L’unico vero realista è il visionario”. Preparatevi dunque a un itinerario insolito, fantastico, dove il confine tra il magico e il vero è sfumato, intrecciato, a volte capovolto, come nei sogni o, appunto, nelle visioni. Felliniano è troppo osare, ma rende l’idea. Un romanzo in forma di film, o un film in forma di romanzo. Si legge, si immagina, e leggendo e immaginando si comincia a vedere anche l’invisibile, che smette di essere tale una volta acchiappato per la coda e amabilmente carezzato.
C’era una volta, e c’è ancora, e se avrete la pazienza di andare avanti ci sarà per sempre, perché è uno di quei personaggi letterari che ti restano dentro come se tu li avessi conosciuti per davvero, un vecchio professore che lascia l’università dove insegna e va ad abitare un mulino abbandonato riempiendolo un po’ per volta di giardini segreti, stanze prima dedicate al lavoro o al riposo, e ora trasformate in regni dell’immaginazione, del dolore, della luce, della memoria, della malinconia, dell’infanzia rubata, delle gambe delle donne. E ancora della pioggia, delle candele, del vento, dei nomi e di altro che verrà. Tutti i personaggi che incontrerete, e ne conoscerete di veramente bizzarri, contribuiscono ciascuno la sua parte ad aiutare il creatore nell’invenzione di nuovi giardini, in una progressione di spazi tendente all’infinito. “Luoghi dell’anima dove incontrare sé stessi, lungo il filo del sogno”.
Lo spirito che anima la moltiplicazione di questi giardini che non c’erano risponde a un’esigenza comune, primaria, universale, eppure di rado esplicitata in modo cosciente. Che cosa resta dei libri che leggiamo, della musica che ascoltiamo, dei film che vediamo? E delle vicende umane che ci attraversano di continuo la strada dell’esistenza? Il professore Adriano Menconi architetta un modo meraviglioso per la conservazione delle tracce. Lascia la cattedra dove insegna, si trasferisce in un casolare nei pressi del passo del Furlo dove una volta si fabbricava il pane e comincia a fabbricare stanze che ospitano quello che di solito si disperde. E in quest’opera di ingegneria umana trova due aiutanti formidabili, anche loro piovuti da Mercurio: il candido Dario, uomo di mitezza disarmante, e la rossa Annà, donna di fiammeggiante ardore.
Insieme cercheranno i materiali per riempire di cose e di senso il labirinto di stanze che aspettano incredule la nuova e imprevista destinazione d’uso. Andare a caccia di storie, da dovunque provengano, qualsiasi tempo le abbia partorite. E questo romanzo è in fondo la storia di tante storie, raccolte come conchiglie sul bagnasciuga o sassi su un sentiero di montagna.
Vi imbatterete in un bordello tra i boschi gestito dall’Orsolina, detta Orsolona, provetta cuciniera di lasagne al tartufo, e poi nella rombante banda del Birro, composta di miserabili a bordo di scassate moto Guzzi o Harley Davidson sopravvissute a un finimondo. Patirete con Gelsomina la violenza subita in un confessionale e rivivrete con Olmo, un ingegnere navale finito per scelta tra capre e solitudini impervie, l’incanto di un lontano incontro al fiume quando, bambino, scoprì l’amore insieme a una creatura che gli rivelò il segreto erotico delle molliche di pane. Viaggerete tra Mosca, Parigi e l’Honduras, per tornare sempre all’aeroporto Federico Fellini di Rimini, attracco ideale di questo romanzo, che sembra cinema, e magari lo diventerà anche, scritto da un autore che viene da quelle parti lì, che è cresciuto ascoltando anche lui la stessa voce della luna del Maestro, che ha vinto tre volte il premio Ilaria Alpi e che ha speso la vita a cercare di raccontare con passione e partecipazione le vite degli altri.
L’impressione è che Nevio Casadio, detto Nev, faccia lo stesso lavoro del professore che si inventa la casa dei giardini segreti. Ma è giusto un’impressione, la mia. Adesso fatevi la vostra. Andate a vedere, cominciate a leggere, che poi in questo caso è la stessa cosa.
Carlo Verdelli