Chi conosce Articolo 21 sa che siamo stati tra i non molti che hanno sempre difeso, difendono e difenderanno l’autonomia della magistratura da ogni bavaglio, di qualsiasi natura e colore.
Per questa ragione non ci siamo mai associati alla canea di chi, a partire da una singola decisione, ha cercato e cerca di delegittimare il singolo magistrato e soprattutto la funzione della giustizia.
Non casualmente la destra eversiva punta a disgregare la divisione dei poteri, principio che fonda le democrazie post-resistenziali e qualsiasi democrazia di origine liberal-democratica.
Questa nostra scelta di essere, sempre e comunque, dalla parte della Costituzione non ci esime dal criticare un singolo atto o una singola sentenza, con il rispetto dovuto, ma senza infingimenti o subalternità che non ci appartengono.
Lo abbiamo fatto, per fare un solo esempio, quando Rino Giacalone, attivista di Libera e di Articolo 21, fu condannato per aver usato la metafora tratta da Peppino Impastato, “la mafia è una montagna di merda”, applicata al boss Mariano Agate, pluricondannato.
I giudici ritennero quel testo più importante del contesto che vedeva la città di Trapani, circondata da mafia, massoneria deviata, politici corrotti, collusioni, ipocrisie, connivenze pericolose.
Da qui la condanna riservata a un cronista coraggioso, libero, nel mirino degli ignavi e dei complici.
Per le stesse ragioni ci lascia quanto meno perplessi la sentenza della Corte di Cassazione che ha confermato la sanzione pecuniaria contro don Marcello Cozzi, già vicepresidente nazionale di Libera, voce profetica nella sua Basilicata, uomo di fede, impegnato nella quotidiana lotta per la legalità, la verità e la giustizia.
La condanna è relativa a un suo articolo sul caso di Elisa Claps, e non solo, pubblicato sul Quotidiano di Basilicata.
Don Marcello Cozzi è stato ritenuto responsabile di diffamazione per non aver riportato tutte le archiviazioni relative alla posizione dell’ex direttore dell’azienda sanitaria di Potenza, Michele Canizzaro, marito della PM Felicia Genovese, che aveva indagato sul caso di Elisa Claps, una delle più incredibili vicende della storia d’Italia.
L’editoriale di don Marcello, peraltro, non riguardava solo il caso Claps, ma era, nello stile di un sacerdote fortemente impegnato sul piano etico, ancor prima che politico, una appassionata denuncia di omertà, compromissioni, ritardi, che aveva attirato l’attenzione di croniste e cronisti da ogni parte del mondo.
Non si trattava dunque di un pezzo di cronaca, ma di un editoriale segnato dai toni dell’indignazione, della passione civile, della invettiva etica, caratteri che definiscono una delle modalità di quelle che vengono catalogate come “orazioni civili”.
Il tribunale ha ritenuto non rilevante la storia e la funzione di don Marcello Cozzi, allora anche vicepresidente di Libera, associazione contro le mafie fondata da don Luigi Ciotti. Da qui la decisione di confermare la sanzione, perché “non poteva non sapere” e di conseguenza avrebbe dovuto citare per esteso le archiviazioni e tutte le sentenze già pronunciate su Michele Canizzaro.
Una tesi che non ci convince e che rischia di separare, in questo come in altri casi, il contesto dal testo.
Naturalmente rispettiamo la sentenza, naturalmente continueremo a respingere ogni bavaglio contro i giudici (ma anche contro l’Articolo 21 della Costituzione), naturalmente continueremo a stare dalla parte di don Marcello Cozzi, di Libera, e di quanti, ogni giorno, si battono contro mafie, massonerie, illegalità, indicibili compromessi.