Il 25 dicembre Ahmed, rifugiato di origini sudanesi, ha finalmente messo piede in Italia.
Un momento che, per molti, sarebbe potuto apparire come un semplice atto di immigrazione, e invece rappresenta una clamorosa vittoria per i diritti umani, sancita da un giudice del Tribunale Civile di Roma.
Questo episodio, un arrivo giustificato da un regolare visto di ingresso, è il risultato di una battaglia legale necessaria per ripristinare un diritto che, secondo le convenzioni internazionali e la nostra Costituzione, dovrebbe essere garantito a prescindere dalle circostanze: il diritto di asilo.
Ahmed, come tanti altri, è stato vittima di pratiche inumane e umilianti. Ripreso da un mercantile e respinto in Libia, ha subito un trattamento feroce, compresa la tortura. Il Tribunale ha riconosciuto l’illegittimità di tale condotta, stabilendo che le autorità italiane, nel coordinare queste operazioni congiunte con le forze libiche, abbiano violato quelle “obbligazioni positive” che impongono agli Stati di prevenire atti di tortura e trattamenti inumani. La storia di Ahmed è solo una delle molte che raccontano le violazioni sistematiche dei diritti dei migranti, messe in atto negli ultimi anni
La gravità della situazione diventa ancor più evidente quando si considera che è stata una Corte, e non le istituzioni preposte alla protezione dei diritti umani, a dover intervenire per rimediare a queste ingiustizie. Non si tratta solo di inadeguatezza delle politiche migratorie europee; è un fallimento morale che si riverbera sull’immagine del nostro Paese e di tutto il continente.
È inaccettabile che le persone, come Ahmed, debbano ricorrere a misure straordinarie e alla giustizia per vedere rispettati diritti fondamentali che dovrebbero essere garantiti automaticamente. La battaglia legale per farlo arrivare in Italia è stata condotta da un ampio collegio di avvocati dell’ASGI, supportati dal progetto Oruka1 e dal Josi&Loni Project, che hanno lavorato instancabilmente per ricostruire e documentare le violazioni che aveva subito durante il suo viaggio. La loro tenacia ha portato a una sentenza celebrata, giustamente, come simbolo di giustizia, ma non possiamo dimenticare che molti altri, ancora oggi, rimangono intrappolati in situazioni disperate, senza alcuna forma di protezione.
Questa ingiustizia è amplificata dal contesto in cui è avvenuta: il Mediterraneo, un luogo diventato simbolo di interpretazioni distorte del diritto. Gli episodi di respingimento collettivo e le pratiche di soccorso incivile, supportate da accordi intergovernativi spesso opachi, continuano a creare una situazione insostenibile per chi cerca rifugio dalla guerra e dalla persecuzione.
La denuncia è doverosa: a partire dal 2018, più di 270 persone, hanno dimostrato di aver subito respingimenti illegali in Libia, con il supporto delle istituzioni italiane. Molti di loro, nonostante abbiano i requisiti richiesti per ottenere lo status di rifugiato, si trovano ancora oggi in una situazione di vulnerabilità, senza alcun accesso alla protezione internazionale. La giustizia deve essere garantita per tutti, non solo per coloro che riescono a far sentire la propria voce.
L’arrivo di Ahmed è un simbolo di speranza, ma anche un reminder che il percorso verso un vero rispetto dei diritti umani è ancora lungo. Non possiamo permettere che lo status “dell’asilo politico” diventi un privilegio per pochi; deve essere un diritto per tutti.
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