Le sentenze non andrebbero mai commentate, ma quando il giudizio che implicano va ben oltre la vicenda processuale meritano una riflessione.
L’esito del processo a carico dell’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini, per la sua gestione dell’emergenza migratoria, non rappresenta solo un capitolo giudiziario, ma un’occasione per ricordare responsabilità ben più ampie e radicate nella nostra società.
Questa sentenza non assolve dal peso morale. Anzi, attiva un “comando” di allerta – ancora maggiore – su un tema di vitale importanza: la violazione dei diritti umani di centinaia di migranti.
Non possiamo limitarci a considerare le azioni di Salvini come una questione individuale; esse rappresentano piuttosto il fallimento di un’intera struttura politico-sociale che ha deciso, in nome della cosiddetta “sicurezza”, di criminalizzare la migrazione, trattando i migranti come una minaccia di cui liberarsi, non come esseri umani in cerca di dignità e opportunità.
È della massima importanza sottolineare che non è la sentenza in sé a definire le mancanze o meno di un ministro, ma il contesto in cui queste mancanze si sono manifestate.
La “vergogna” di questo governo, e più ampiamente della narrativa di destra, è rappresentata dalla sofferenza inflitta a persone vulnerabili.
Le leggi emanate contro i migranti, sotto il pretesto della difesa dei confini, sono nulla di meno che atti di rinuncia ai principi fondamentali di umanità, di compassione e di solidale convivenza.
Ciò che è emerso dall’operato del Ministro Salvini è specchio di un progetto politico che ha confuso la migrazione con un’invasione, trasformando viaggi disperati in numeri da gestire e naufragi in statistiche. Si è scelto di edificare muri e filo spinato, di creare campi di concentramento travestiti da hotspot, dove le pratiche di selezione e respingimento diventano routine, mentre i diritti vengono sistematicamente calpestati.
Viviamo in un’epoca in cui la migrazione è diventata la principale questione razziale, un terreno di scontro dove le destre hanno trovato un fertile terreno per cementare la loro egemonia.
È ora di rispondere a questa sfida con un lavoro culturale e politico profondo. Dobbiamo far capire che la vera minaccia non è rappresentata dalle persone migranti, ma piuttosto dal capitalismo razziale che sfrutta la paura del diverso per perpetuare un sistema iniquo.
La paura che si alimenta nei confronti del migrante deve essere affrontata, non ignorata. È solo attraverso una rottura decisiva con le logiche dello sfruttamento che potremo riscoprire il valore dell’eguaglianza, intesa non solo come un principio etico, ma come la chiave per una vita dignitosa.
Duole però constatare che, nonostante le sofferenze e le ingiustizie, il dibattito politico si dimostri ancora imbrigliato in falsi dualismi, incapace di evolvere verso una visione incentrata sull’umanità e la giustizia sociale.
Il vuoto intellettuale e morale della politica va colmato con l’impegno civile. La nostra società deve decidere come scrivere la storia, di questo paese. Come possiamo costruire insieme un futuro in cui i diritti di tutti siano rispettati e la dignità umana non più messa in discussione?
La risposta sta nel riconoscere, ogni giorno, la nostra umanità comune e nel lottare contro coloro che, alimentando divisioni, continuano a perpetuare oppressione e ingiustizia. È tempo di voltarsi verso la luce.