Anche la Rai che sbaglia indica la strada alla politica. I celebrati (male) 100 anni di radio e 70 di televisione nel corso del 2024 lo dimostrano con dati oggettivi, date precise, equazioni incontestabili. Non è affatto una leggenda metrpolitana, è la cronaca delle vicende Rai dall’Eiar fascista a Telemeloni.
In sostanza, il governo Meloni potrebbe trarne delle indicazioni utili per evitare sbagli soprattutto politici per il futuro. E questo lo vedremo. Per ora, a fine anno, i media stanno facendo giustamente quelli che qualche intellettuale potrà anche chiamare (soprattutto di sinistra) “conti della serva”, ma i numeri come si sa hanno quella loro fredda e arida inoppugnabilità che li rende ostici a quelli a cui non piacciono. Secondo i dati Auditel resi noti ieri nel 2024 il gruppo Mediaset supera per il secondo anno consecutivo l’ascolto medio della Rai. Numeri stretti, ovviamente: 36,9 contro 36,6 nell’intera giornata. Mai accaduto prima del 2023, anno in cui Mediaset fu per la prima volta davanti alla Rai. Ma la situazione dell’anno che sta finendo è ben più allarmante per la Rai.
Perché il sorpasso di quest’anno arriva in un anno in cui Rai ha trasmesso eventi importanti e di grande successo come Olimpiadi ed Europei di calcio, mentre sulla rivale Mediaset ha pesato l’assenza dei match in chiaro di Champions League. I dati Auditel, definitivi, infatti, discordano con quelli dell’Agcom (che davano la Rai in testa con 3,01 contro 2,96 milioni di spettatori) ma solo perché fotografavano la situazione dei primi 9 mesi dell’anno, quelli con le Olimpiadi e Sanremo, mentre il sorpasso è avvenuto il 9 novembre, dopo la partenza della programmazione autunnale, quella interamente voluta dal nuovo gruppo dirigente meloniano della Rai.
Già alcuni ritenuti esperti di vecchi e nuovi media hanno sentenziato che, soprattutto i dati dei telegiornali, sono il frutto del crollo dell’informazione generalista che le nuove generazioni non seguono più ed è destinata a finire
Sono a volte colleghi e accademici che conosco e di cui ricordo, e ho i testi, le profezie sulla fine della TV generalista già nel 1995, l’anno fatale in cui l’Italia si accorse del digitale (ricordate il tour esaltante di Nicolas Negroponte che presentava il suo “Essere digitali”), prevista prima dell’avvento del mitico terzo millennio, con annesso millennium bag.
Sappiamo bene che non è andata così. E che, proprio come prevedevano altri studiosi meno presenti nei talk televisivi, l’Italia si sarebbe rivelata la più resistente sulla televisione generalista, che infatti ha oggi, dopo un quarto di secolo degli anni 2000, l’ascolto maggiore rispetto a tutti gli altri paesi dell’Europa occidentale. Bastava leggere i dati Istat su nascite e morti, proprio come oggi. O i meravigliosi rapporti Censis che politici e giornalisti dovrebbero imparare a memoria da decenni.
Insoma, in Italia la TV generalista tiene, ma incredibilmente la Rai, la generalista per antonomosia, perde e perde male e non solo è sotto rispetto a Mediaset, sogno che a Silvio Berlusconi non riusc’ mai, ma straperde nei confronti de la 7 e fa diventare rete nazionale la Nove, una TV che un anno fa gran parte degli spettatori non sapeva neppure su quel numero del telecomando fosse.
Dilagano le piattaforme digitali, e dopo 30 anni ci mancherebbe, ma non è quello i pubblico che la Rai sta perdendo: i giovani la Rai li ha persi da decenni. La Rai tracolla perché, per esclusive ragioni politiche, un solo partito della maggioranza, Fratelli d’Italia, ha occupato militarmente tutti i gangli vitali della fu azienda di servizio pubblico e lo ha fatto con persone inadeguate, incapaci, incompetenti. Arroganza e inadeguatezza. Hanno seguito solo questa strada e oggi la Rai è senza un presidente e in mano a persone che mediamente non hano ancora capito bene cosa sia un prodotto televisivo. Mai come nel 2024 sono stati chiusi programmi nuovi ( e la sperimentazione sarebbe una buona cosa) perché ideati male, scritti male, condotti male. Ascolti portati al di sotto dello 0, due reti come la 2 e la 3 ridotte ai minimi termini.
Da Nunzia De Girolamo (Avanti popolo) a Luca Barbareschi (Se mi lasci non vale) da “ A casa di Markia Latella,” a L’altra italia di Antonino Monteleone, al crollo di un quiz storico come “Reazione a catena” con la conduzione di Pino Insegno allo stesso Massimo Giletti che fa ascolti da terza rete dei primi anni ottanta. E Giletti, come Insegno, sono professionisti, naufragati però in un mare di incompetenza e anche nella sacrosanta rivolta del pubblico di fronte ad una protervia politica che, lo dico sapendo di farmi molti nemici, non c’era mai stata in questa misura. Mai. La Rai era lottizzata da tempo e alcuni paradigmi di potere sempre rispettati. Ma nulla di simile a quello che è stato fatto dal partito della Meloni in questi due anni. E poi un tempo i partiti alla Rai mandavano i migliori di ogni settore. Adesso non so, forse i migliori non esistono!
I punti più bassi in questo quadro non potevano che essere toccati dai telegiornali: Il TG1 del direttore Chiocci che fa saltare la programmazione per far chiedere perdono ala moglie dal ministro Sangiuliano ha perso il 3,9 % rispetto al 2023, il TG2 di Preziosi perde quasi il 9%, mentre il TG3 perde solo lo 0,44% in una rete che invece sprofonda. Dove vano questi spettatori?, Sugli smart, sui tablet? No, sul TG la 7 di Enrico Mentana, la domenica sulla prima parte del programma di Fabio Fazio, che per la prima volta nella storia della TV ha preso il suo pubblico Rai e con lo stesso programma lo ha spostato in tre mesi su una rete sconosciuta, quella Nove che la domeica sera non scende sotto i 2 milioni di ascolto.Scarsa consolazione che vada male anche il TG5. Mentre Rainews, che pure ebbe anni di affermazioni importanti, è praticamente scomparsa, con il suo -52%.
Il crollo della Rai, che io chiamo fu servizio pubblico, è pagato anche con i nostri soldi del canone. Interessa a pochi, lo sappiamo. Ma la crisi anche di questo governo, che esiste anche se l’opposizione forse non lo sa, ruota anche intorno alla Rai, da mesi sottoposta ad un ignobile balletto politico sula presidenza che offende l’azienda, le singole persone, prima di tutto la politica stessa.