Se non lo avete ancora fatto, vi consiglio di leggere il Digital News Report 2024 del Reuter Institute for the Study of Journalism, sul consumo di notizie digitali nel mondo. E’ una analisi molto dettagliata, basata su un sondaggio condotto su oltre 95mila persone in 47 paesi, che rappresentano metà della popolazione del pianeta.
Il rapporto evidenzia l’importanza crescente a livello globale delle piattaforme digitali nel consumo e nella produzione di notizie, con un aumento dell’uso di social media visivi o orientati ai video, come TikTok, Instagram e YouTube.
Anche in Italia il panorama mediatico sta vivendo significativi cambiamenti, a partire dalla televisione, che è stata e continua ad essere la fonte primaria di notizie, ma comincia a calare di importanza. Se nel 2017 rappresentava il punto di riferimento informativo per l’85% della popolazione, nel 2024 questa percentuale è scesa al 65%.
La crisi riguarda in particolare la RAI e la causa del calo di telespettatori è la perdita progressiva di quel pluralismo che aveva contraddistinto per decenni il servizio pubblico, secondo l’Osservatorio di Pavia, l’istituto nazionale di ricerche specializzato in analisi della comunicazione.
Oggi TG1, TG2 e Rainews sono solo un megafono del governo.L’informazione della RAI è a senso unico, si è “melonizzata” (dal nome della premier Giorgia Meloni), e il pubblico che seguiva prima queste testate o si è spostato su altre emittenti o ha cercato altre fonti informative.
E’ interessante notare come questo calo è più pronunciato tra i giovani tra i 18 e i 24 anni, con solo il 50% che utilizza la tv per le notizie. Solo il tg3 continua a mantenere il suo pubblico, offrendo un’informazione che tiene conto di tutte le posizioni politiche presenti in Parlamento, anche quelle dell’opposizione.
Ma il calo più drastico riguarda la carta stampata, che sta vivendo una profonda crisi strutturale come fonte di informazioni: l’utilizzo che nel 2014 era del 59%, dieci anni dopo, nel 2024, scende al 13%.
Come recuperare fiducia? Non sarà facile, ma la prima cosa è cambiare mentalità e strategie editoriali per contrastare la concorrenza del social media.
Chi si informava prima leggendo i giornali, infatti, oggi lo fa invece via internet: il 69% di italiani li legge sul suo smartphone, sul pc o su un tablet.
E il 39% utilizza i social media come fonte primaria di notizie, con molti rischi, però, secondo vari analisti. Grazie alla rete infatti, ormai chiunque può esercitare un potere di intervento nella produzione delle notizie, che prescinde dalla loro veridicità.
Ci sono degli influencer specializzati in questo tipo di interventi, in grado di condizionare la massa dei loro followers, in vista di una meta precisa da raggiungere. Ma chi ci guadagna a far circolare informazioni non veritiere?
Il primo motivo è la conquista della pubblicità: più notizie sensazionali “spari” su blog e siti, più utenti attrai. Il guaio è che molti giornali sono andati dietro a questo modo di fare giornalismo, per battere la concorrenza, senza preoccuparsi di verificare la serietà della fonte. L’importante è arrivare per primi a dare la “presunta” notizia.
Ma c’è un altro motivo nel fare una sistematica opera di disinformazione attraverso i social media, che prescinde dalla ricerca della pubblicità, ed è molto più pericoloso: è stato messo in atto negli ultimi anni da vari siti di origine russa, con l’obiettivo di condizionare l’opinione pubblica di altri paesi.
Non c’è dubbio, ad esempio, che l’affermazione elettorale di Trump negli Stati Uniti, sia la prima che adesso la seconda, sia stata fortemente aiutata da Mosca via internet, così come l’elezione al primo turno del presidente della repubblica in Romania, poi annullata dalla Corte Suprema di Bucarest per sospetti inquinamenti digitali dei risultati.
C’è un modo per contrastare quest’opera di disinformazione? L’Europa ci sta provando. Bruxelles ha mobilitato tutti gli strumenti a sua disposizione, in prima linea il Servizio europeo di azione esterna (SEAE), ma anche l’Osservatorio sui media digitali (EDMO). Inoltre è entrato recentemente in vigore il Digital services act, la legge europea che regola gestione e rimozione dei contenuti illegali online.
Le campagne di disinformazione non sono mai costruite su un tema totalmente inventato, spiegano gli esperti di Eunews, il sito ufficiale dell’Unione europea, ma sfruttano un dibattito esistente e il malcontento interno nei paesi presi di mira. I temi più ricorrenti sono la guerra in Ucraina, la crisi climatica, l’immigrazione e anche la comunità lgbt.
Il problema, dicono a Bruxelles, è che insieme alle nostre capacità di rilevare campagne di manipolazione, sono migliorate anche le tecniche usate dai disinformatori, che sempre più spesso usano strumenti come l’intelligenza artificiale e lanciano campagne su più piattaforme contemporaneamente.
Ci sono pooi altri tipi di manipolazione fatti attraverso i social media, che non vanno meno sottovalutati in questa epoca della “post verità”. E riguardano le fake news che usano diffondere i nostri politici, per una propaganda ormai arrivata a livelli comunicativi molto sofisticati.
Ed è su questo piano che i giornalisti televisivi e della carta stampata possono avere un ruolo fondamentale per recuperare la credibilità perduta in questi ultimi tempi, denunciando tutti i tentativi di stravolgere la verità, operati su vari fronti, come abbiamo accennato, anzichè farsi portavoce di chi li mette in atto.
E’ stato molto significativo in proposito, l’appello rivolto in una lettera aperta ai suoi colleghi americani, da Dan Gillmor, un giornalista, stimato studioso dei media. Un appello dal titolo molto eloquente: “Cari giornalisti, finitela di essere casse di risonanza dei bugiardi”.
Gillmor è entrato a gamba tesa in una delicata questione deontologica: quanto un giornalista, nel riportare talune dichiarazioni, è strumento di chi le emana, e dove termina il suo dovere di cronaca per lasciare il posto alla “moderazione” o censura del discorso?
“Il nostro compito non è quello di riportare acriticamente, vale a dire fare stenografia e chiamarlo giornalismo – afferma Gillmor – quando le persone che racconti, stanno ingannando il pubblico. Il nostro compito è di aiutare il pubblico a essere informato su ciò che le persone e le istituzioni del potere stanno facendo realmente, con i nostri soldi e in nome nostro”.
Secondo Gillmor, se anche dopo aver riportato una menzogna, questa viene smentita da una successiva verifica dei fatti, non basta perchè come è stato ampiamente dimostrato, ogni ripetizione di una “bugia”, non fa altro che rafforzarla nella coscienza, o meglio nell’inconscio, del lettore.
La nostra mente, inoltre, è affetta da una ulteriore distorsione cognitiva, il Bias di conferma. Così lo chiama Walter Quattrociocchi,docente di comunicazione all’università romana della Sapienza, nel suo libro Guida alla società della credulità: consiste nel ricercare, selezionare e interpretare informazioni che confermano le proprie convinzioni o ipotesi. Un’abitudine molto diffusa, dice Quattrociocchi, che rende più difficile bloccare la diffusione di una fake news.
Se i giornalisti accogliessero l’appello di Gillmor, di denunciare chi imbroglia, anzichè farsene complice, le cose potrebbero cominciare a cambiare. Ma bisognerebbe tornare a tenere la “schiena dritta”, come si faceva una volta, per recuperare l’autorevolezza perduta.
E cominciamo infine ad ignorare quegli “odiatori da tastiera”, come li definisce in un memorabile articolo Ernesto Assante, un grande giornalista scomparso prematuramente poco tempo fa, anzichè dare loro tutta quella rilevanza che ogni giorno gli diamo come presunti rappresentanti di un popolo del web, mentre sono solo una piccola minoranza di esaltati “signor nessuno” che cercano di condizionare l’opinione pubblica attraverso di noi.
Riappropriatevi del vostro ruolo di mediatori rispetto ai fatti, ha detto Papa Francesco in occasione dell’ultima giornata mondiale della comunicazione.
Un invito che suggerisco a tutti, me per primo, di raccogliere e cominciare a mettere in atto, se vogliamo essere dei veri giornalisti.