La protezione delle fonti dei giornalisti è la pietra miliare della libertà di stampa. Di conseguenza, gli Stati che hanno ratificato la Convenzione europea dei diritti dell’uomo sono tenuti ad adottare misure effettive per garantire la confidenzialità delle fonti dei giornalisti ed evitare ingerenze con controlli sull’attività della stampa. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti dell’uomo che, con la sentenza depositata il 28 novembre Csikos contro Ungheria (ricorso n. 31091/16, KLAUDIA CSIKÓS v. HUNGARY), ha chiarito la corretta interpretazione dell’articolo 10 della Convenzione che assicura la libertà di espressione nella quale è inclusa la libertà di stampa, che gode di una protezione rafforzata.
Uno scenario tipico, ormai anche in alcuni Paesi europei. Una giornalista, che aveva pubblicato alcuni articoli su casi di corruzione, sosteneva che il suo telefono era stato messo sotto controllo dalle autorità investigative per identificare le sue fonti, senza una decisione giudiziaria e senza la possibilità di contestare le misure. La giornalista aveva provato a far valere il suo diritto alla libertà di espressione a al rispetto della vita privata ma tutte le sue azioni erano state respinte. Di qui il ricorso alla Corte europea.
La stampa – precisa Strasburgo – ha un ruolo fondamentale nel fornire notizie di interesse generale alla collettività e svolge la funzione di “cane da guardia” della società. La chiave di volta della libertà di stampa è proprio la protezione delle fonti che impone agli Stati di stabilire adeguate misure procedurali di salvaguardia, idonee a garantire la confidenzialità delle fonti e ad impedire accessi non necessari, che potrebbero mettere a rischio la segretezza delle fonti e, quindi, le attività dei giornalisti. Nel caso sottoposto all’attenzione di Strasburgo, la giornalista contestava allo Stato le misure di controllo e di intercettazione adottate dalle autorità nazionali per di più applicate senza bilanciare il diritto allo svolgimento di indagini da parte dello Stato e l’obbligo di tutelare le fonti dei giornalisti.
La circostanza che uno Stato adduca ragioni di sicurezza nazionale trincerandosi dietro questo motivo per giustificare la segretezza delle misure non è una giustificazione ammissibile ai sensi della Convenzione perché ogni individuo ha diritto di ricorrere in sede giurisdizionale per verificare la legittimità delle misure che, se consentono alle autorità nazionali di procedere alla sorveglianza di un giornalista, sono in contrasto con il diritto alla libertà di stampa. Un’evidente violazione della Convenzione che porta la Corte ad accogliere il ricorso della reporter e a condannare lo Stato in causa per la violazione della Convenzione, con l’ulteriore obbligo di versare 6.500 euro per i danni non patrimoniali e 7mila euro per le spese sostenute.