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Gian Maria Volonté, trent’anni d’assenza

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Ciò che ci manca maggiormente di Gian Maria Volonté, scomparso il 6 dicembre del ’94 a soli sessantuno anni, è il suo sguardo. Uno sguardo intenso, profondo, a tratti raggelante che tuttora ci interroga. Uno sguardo che ha fatto la differenza in tutti i film di cui è stato protagonista, che si trattasse dei western di Sergio Leone o dei capolavori cui ha preso parte al fianco di registi come Rosi, Petri, Monicelli, Taviani e altri mostri sacri del cinema italiano.

Convintamente comunista, iscritto al PCI fino al ’77, a differenza di tanti pseudo-intellò contemporanei, nel ’75 aveva persino accettato di candidarsi al consiglio comunale di Roma, risultando eletto con una messe di voti, salvo dimettersi poco dopo per l’incompatibilità che aveva riscontrato fra il suo idealismo e le esigenze, non sempre commendevoli, della politica. La passione, tuttavia, non lo ha mai abbandonato. Basti pensare al “Sacco e Vanzetti” di Montaldo, in cui si prende cura di Riccardo Cucciolla (di cui, a proposito, ricorre il venticinquesimo anniversario della scomparsa), proprio come Bartolomeo Vanzetti si era preso cura di Nicola Sacco nei giorni che ne avevano preceduto l’esecuzione.

Quello di Volonté è sempre stato, dunque, un cinema di denuncia, di testimonianza, di lotta. Non ha mai nascosto la sua fede politica e i suoi ideali, non si è mai tirato indietro, non è mai scaduto nella cinematografia commerciale, preferendo attraversare periodi di crisi piuttosto che cedere. Queste caratteristiche lo hanno reso un attore iconico, un simbolo e un punto di riferimento. Non a caso, quando pensiamo alla sua figura, ci vengono in mente opere come “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, “Il caso Mattei” o la sua perfetta interpretazione di Aldo Moro ne “Il caso Moro” di Giuseppe Ferrara.

L’altra, encomiabile, caratteristica di Volonté era il suo calarsi nella parte. Non si limitava, difatti, a interpretare i ruoli che gli venivano assegnati: lui diventava Moro, per stare all’ultimo esempio, al punto che si faceva fatica a distinguere la finzione dalla realtà.

Diciamo che se c’è un ambito che nel nostro Paese ha resistito, questo è il cinema. Siamo crollati pressoché ovunque, ma nel cinema no: esprimiamo ancora talenti di prim’ordine e abbiamo registi e sceneggiatori in grado di valorizzarli, nonostante le più che discutibili scelte operate nel settore da questo governo. Uno come Volonté, però, non ce l’abbiamo più, per il semplice motivo che ci manca l’intellettuale civile, il militante davanti o dietro la macchina da presa, il compagno che porta in scena rancori, rabbie e frustrazioni di una società che ribolle, e ci mancano anche i luoghi in cui proiettarne i film, oltre ovviamente ai cinema, nei quali, va detto, manca sempre più lo spazio dedicato al dibattito e all’approfondimento.

Abbiamo percorso, pertanto, il viale dell’assenza. Questi trent’anni perduti, nei quali quasi tutto è peggiorato, hanno visto l’addio di molteplici personalità che oggi servirebbero come l’aria.

Comprendiamo il vuoto lasciato da un attore come Volonté nel momento in cui seguiamo dei bellissimi film nei quali manca, ahinoi, il guizzo del fuoriclasse: un’espressione del viso, un certo tono di voce o, come detto, per l’appunto, uno sguardo, quello sguardo che rendeva ogni scena una battaglia o, talvolta, un’invocazione d’aiuto.

Attualmente, una scuola di cinema, diretta da Daniele Vicari, porta il suo nome. È bello sapere che ragazze e ragazzi si formino seguendo il suo esempio. Ed è bello sapere che a dirigerla sia Daniele: non solo perché è un amico ma, più che mai, perché è uno dei pochi che ne seguono la filosofia. Anche i suoi film squarciano il buio come un grido, attraverso la ricerca di attrici e attori che siano in grado di calarsi nella parte ben oltre la professionalità. Si chiama politica, e anche nel cinema fa la differenza.


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