Ci sono film che bisogna ricordare anzitutto per il coraggio di averli fatti e per la visione del futuro lucida e chiara che col passare dei decenni appare impressionante.
In questa domenica prenatalizia a Roma nel 1974 ci fu la “prima” di “C’eravamo tanto amati” di Ettore Scola, immaginata dal grande pubblico come un contributo in chiave più amara alla commedia all’italiana, visti anche gli interpreti che già venivano identificati nel genere, come Nino Manfredi, Vittorio Gassmann e la stessa Stefania Sandrelli. Ma Scola aveva realizzato qualcosa di molto diverso.
Lo si comprende dalla prima scena, con i tre soldati nella neve, partigiani in qualche modo atipici, prossimi ad uno scontro con una pattuglia tedesca, mentre in sottofondo sale un canto che per tutti è una canzone partigiana originale, ma in realtà è stata composta per il film da Armando Trovajoli con la collaborazione della figlia adolescente di Sola, Paola.
“Marciavamo con l’anima in spalla nelle tenebre lassù
ma la lotta per la nostra libertà il cammino ci illuminerà.
Non sapevo qual era il tuo nome, neanche il mio potevo dir
il tuo nome di battaglia era Pinìn e io ero Sandokan.
Eravam tutti pronti a morire ma della morte noi mai parlavam,
parlavamo del futuro, se il destino ci allontana
il ricordo di quei giorni sempre uniti ci terrà.
Le sale trasalivano, alcuni occhi luccicavano, molti credevano di aver sbagliato film. Ma il film era quello, Scola voleva raccontare l’impossibilità di essere uniti degli italiani anche dopo la tragedia di una guerra devastante e di un regime feroce come il fascismo.
Storia d’amore e tradimenti, di amicizia e di idealismo, di cambiamenti e speranze deluse, tutto il film resta un lucido intreccio di vicende personali dei protagonisti con il flusso della Storia del nostro Paese.
A rendere sempre attuale la pellicola, sono i caratteri dei personaggi ad essere eterni e riconoscibili nel nostro presente come in ogni presente che l’Italia ha attraversato dal 1974 ad oggi (e che attraverserà domani). Del resto, Romolo Catenacci, il personaggio-maschera del fascista diventato palazzinaro romano forse legato alla DC, interpretato dallo strepitoso Aldo Fabrizi in una delle sue più memorabili apparizioni cinematografiche, esclama tossendo: “Io nun moro!”, proprio a significare che certi “caratteri” sono insiti nel nostro DNA.
Come i tre amici partigiani per caso ma convintamente antifascisti e felici della scelta repubblicana, Gianni (Gassman), Antonio (Manfredi) e Nicola (Satta Flores), provano insieme, ma ciascuno per i propri motivi, la delusione di un “dopo” che avevano immaginato diverso. E reagiscono con tre classiche posizioni che noi italiani non abbandoneremo mai: il deluso con pochi scrupoli, Gassman, che sposa per interesse la figlia del costruttore che in effetti disprezza (e quando lo spirito di lei, Elide, personaggio meraviglioso interpretato da Giovanna Ralli, gli appare rimproverandolo lui barcolla) alla fine sceglie di diventare un avvocato spregiudicato e intrallazzone ma con villa all’Olgiata con piscina, il top per quegli anni a Roma e naturalmente distributore di mazzette ai nuovi politici e al nuovo potere.
Manfredi, il barelliere del Policlinico, non fa nemmeno un passetto avanti, ascensore sociale inesistente, che lui compensa con il suo spirito remissivo (ma quanto avrebbe amato fare una rivoluzione) e con l’amore per Luciana, una Sandrelli alla prima prova di grande attrice, e la costruzione di una vita inizialmente proletaria ma comunque per molti versi borghese. Prova a partecipare a manifestazioni operaie e ad avvicinarsi ai mondi della contestazione, non ce la fa, e ala fine sceglie il compromesso, anche per amore di Luciana. Quello che rifiuta inutilmente Nicola, l’intellettuale, il professore di Nocera Inferiore (“Nocera è inferiore perché ha dato i natali a tipi reazionari e ignoranti come voi”) che cerca però la gloria attraverso il maggiore strumento del potere, la televisione, cercando di vincere al quiz di Mike Bongiorno.
Nicola non combinerà nulla e continuerà a scrivere su giornali minori con la sigla “vice”, ognuno andrà amaramente per la sua strada in un’Italia che avevano sognato diversa.
Ma l’incontro casuale arriva e una sera si ritrovano dal “Re della mezza” dove mezza sta per mezza porzione, una tradizione romana che, per fortuna, esiste ancora (e che ha permesso a noi studenti di allora di crescere mangiando bene con poche lire, davvero). Ma non sarà né pace né guerra fra il borghese che ha tradito, il comunista rassegnato e l’intellettuale anarchico e velleitario. Da dietro una siepe vedranno Gianni tuffarsi dalla piscina della sua villa, a loro sconosciuta, e si allontaneranno dicendosi “boh..”. E con quel “boh” possiamo andare avanti all’infinito, ringraziando Scola per averci dato dei capolavori senza tempo come questo.