BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Sulla pace (e i media) al tempo Musk e Trump

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E ora che hanno vinto Trump e Musk che si vestono da improbabili pacificatori cosa accadrà? Sul futuro dell’Europa e dell’Italia incombe lo spettro di una crescita ulteriore dell’economia di guerra con scompensi di ogni tipo, con in vista inesorabili tagli al sociale perché la spesa pubblica pare possa essere dilatata solo per elicotteri da combattimento e carri armati coi quali però “non si mangia”. E’ venuto finalmente il momento di ricostruire punto per punto l’argomento, mettere insieme i pezzi, sviluppare una analisi sul perché il tema pace, pur condiviso dalla maggioranza degli italiani, ha trovato in questi anni così poca udienza sui media, è stato rimosso, cancellato, irriso. E’ il momento di agire perché le cose cambino adesso che tutto il quadro politico mondiale appare in movimento.

Partiamo da un dato concreto. La spesa militare complessiva italiana per il 2024 viene stimata intorno ai 28 miliardi di euro, con una crescita di oltre il 5% rispetto all’anno precedente. Secondo la Nato però questi numeri non bastano ancora, dovremmo investire di più in armamenti, non è sufficiente che il bilancio del nostro Ministero della Difesa in soli due anni sia aumentato del 12%. E a livello di Unione Europea si dice più o meno la stessa cosa, la discussione riguarda di fatto unicamente gli strumenti finanziari da adottare per sostenere questo incremento. In questo contesto risultano minoritarie, anche se sicuramente autorevoli, le voci che si levano per sostenere che si tratta di una spesa improduttiva, che non si possono sottrarre ulteriori risorse al sociale.

Il punto è che gli italiani non sono per nulla concordi con la prospettiva di un futuro imperniato su “un’economia di guerra”. Tutte le rilevazioni sono convergenti: non siamo assolutamente un popolo bellicista. Particolarmente eloquente è quanto è emerso da uno degli ultimi sondaggi condotto a livello continentale dallo European Council on Foreign Relations. E’ risultato che su 15 paesi siamo all’ultimo posto come numero di sostenitori di un aumento della spesa militare: da noi solo il 9% della popolazione lo vuole mentre il 63% è decisamente contrario.

Ma notizie così importanti sono circolate in Italia? Se non vogliamo essere superficiali dobbiamo rispondere in modo articolato. Possiamo dire che se ne trovano sicuramente tracce sui canali informativi impegnati a favore della pace. Contemporaneamente però chiunque può verificare (potete attingere pure alla vostra memoria) che sono state totalmente oscurate dai media principali. In poche parole hanno avuto una “circolazione molto limitata”. E’ questo è un elemento fondamentale che va colto. In una società frammentata come la nostra se un argomento rimane confinato in un ambito circoscritto, allora non attira l’attenzione dell’insieme dell’opinione pubblica, resta ai margini del dibattito. Sta qui una delle responsabilità maggiori degli strumenti di comunicazione dominanti ( che poi sono ancora i telegiornali e i più diffusi quotidiani, i cui editorialisti sono pure ospiti fissi dei talk tv). Il primo “grave peccato” che hanno commesso è quello della omissione dei punti di vista e soprattutto delle informazioni “dissonanti”.

Ma i direttori e gli opinionisti dei principali giornali sono consapevoli che gli umori degli italiani non sono bellicisti? Certo che lo sanno e per questo si sono assunti il compito di convincere la gente che alla guerra bisogna rassegnarsi. E perché dovremmo farlo? Perché saremmo in pericolo e ogni esitazione davanti all’inevitabile necessità di dare voce alle armi equivale a una resa davanti al nemico. E chi è che ci minaccia? Questo è un passaggio delicatissimo perché le due guerre Russia Ucraina e quella in Medio Oriente (le uniche di cui si parla ma ce ne sono molte altre altrettanto sanguinose totalmente rimosse) sono molto diverse fra loro. Qui non abbiamo lo spazio per affrontare il tema, basti solo dire che fino a poco più di un anno fa Putin e Netanyahu hanno avuto ottimi rapporti fra loro. Comunque sia, gli opinionisti pro guerra alla fine l’hanno trovato uno schema unificante: hanno puntato il dito contro i “nemici dell’Occidente”, categoria talmente vaga e elastica da poter includere Russia e Hamas e da poter parallelamente “assolvere” dittatori brutali e spietati purché catalogabili come amici. In questa rappresentazione ideologica, che ha dominato negli ultimi anni la nostra sfera pubblica ( il campo del dibattito e delle parallele decisioni politiche), non si capisce neanche bene cosa sia questo Occidente. Non si comprende se si stia parlando della Nato, dell’Unione Europea, il G7, o più semplicemente degli Stati Uniti e l’area del dollaro. Quello che conta è il messaggio. Sui principali quotidiani sono usciti a ripetizione articoli che accusavano il popolo italiano di sostanziale vigliaccheria, di propensione alla vita comoda, di avere un’idea distorta di libertà per la incapacità di comprendere che va difesa con le armi sempre e comunque. Un delirio che ha raggiunto punte di isteria assoluta il 23 settembre sul Corriere in un editoriale in cui i contrari alla corsa agli armamenti sono stati letteralmente definiti “adoratori del diavolo” che in odio all’Occidente sono pronti a sostenere qualsiasi tiranno.

In questo quadro, segnato da “sindromi allucinatorie”, è passata nella informazione dominante quella che in tempo di guerra viene definita la “disumanizzazione del nemico”. Se il massacro e gli orrori compiuti da Hamas sono stati denunciati con la giusta attenzione non altrettanto è avvenuto per il sistematico sterminio di donne e bambini e la devastazione delle infrastrutture civili, scolastiche e sanitarie a Gaza da parte dei bombardamenti israeliani. C’è una storia su questo che merita di essere riferita. Riguarda Raffaele Oriani, un giornalista di Repubblica che ai primi di

gennaio ha interrotto dopo dodici anni la sua collaborazione con il settimanale il Venerdì. Ha scritto a tutti i trecento redattori del giornale spiegando che le sue dimissioni erano dovute alla “incredibile reticenza” con cui il quotidiano dava conto dell’eccidio in corso a Gaza. “Quanto accaduto il 7 ottobre è la vergogna di Hamas, quanto avviene dall’8 ottobre è la vergogna di noi tutti” ha concluso. La denuncia di quest’uomo, di mitezza assoluta ma di grande rigore morale, non ha prodotto nei fatti alcun cambiamento nell’impostazione editoriale del quotidiano che ha continuato a trattare la drammatica sorte dei civili palestinesi con burocratica freddezza. La vicenda ha suscitato molta attenzione sui social, Oriani ha pubblicato anche un libro, ma il suo appello a voltar pagina è stato sostanzialmente censurato dai media principali, non ha aperto alcun dibattito sull’informazione italiana e il massacro di decine di migliaia di innocenti.

Si dirà che in Italia c’è la libertà di stampa e di espressione tutelata dalla Costituzione. Sicuramente, ma c’è pure il diritto di critica soprattutto quando ci si trova davanti a un “coro di voci” che cantano tutte la stessa canzone. Se un organo di informazione rivendica con martellante insistenza la qualità, l’imparzialità e la completezza dei propri messaggi, l’opinione pubblica ha il parallelo pieno diritto di denunciarne le parzialità e le omissioni. Certo bisogna essere in grado di farlo. E questo è sempre un tasto dolente perché quella della critica puntuale è un’attività faticosa che richiede preparazione, impegno, conoscenza del funzionamento del sistema dei media. Per questo insisto sulla questione delle omissioni perché è probabilmente il campo dove le manchevolezze, frutto di un approccio ideologico, acquisiscono una evidenza cristallina. Già abbiamo detto delle cose importanti, ma poniamo qui una serie di domande. Perché non si parla mai delle “guerre dimenticate”? Gli italiani non avrebbero diritto di essere informati su quanto accade in Sudan dove ci sono oltre dieci milioni di sfollati? Questo discorso fa emergere un altro “buco nero” strettamente intrecciato alla teoria del primato dell’Occidente. Come la mettiamo con il “Sud Globale” del pianeta, con l’Africa, l’Asia, l’America latina? Non si accorgono i “suprematisti bianchi” che tre quarti dell’umanità non ci segue nelle nostre crociate, che così la si regala al “nemico”? Ma il capitolo dei temi non affrontati nel nostro dibattito pubblico è di fatto smisurato. Solo voci minoritarie hanno portato alla luce le connessioni esistenti fra la svolta protezionistica che ha contrassegnato gli ultimi anni di politica economica statunitense e la recrudescenza delle tensioni internazionali: all’improvviso l’orizzonte radioso della globalizzazione è sparito dai radar e a nessuno è stato spiegato il perché. Secondo la “visione occidentalista” noi dovremmo soltanto seguire le direttive che ci vengono da Washington e dintorni: qualsiasi cosa si decida lì e per il nostro bene e dobbiamo accettarla senza fiatare.

E ci sono un paio di discorsi da fare in conclusione. Il primo è quello della deriva tecnocratica. Non riguarda soltanto la politica e le istituzioni, ma pure gli strumenti di comunicazione. In un ambiente sociale disarticolato dalle bolle social, lacerato dagli allarmismi opera delle destre pseudo sovraniste, agli opinion leader dei media è parso naturale di dover svolgere un ruolo guida rispetto a una cittadinanza allo sbando. Invece che assumere un atteggiamento prudente di informatori dialoganti col sociale è prevalsa la supponenza di chi impone narrazioni a senso unico che non ammettono dissonanze. In certi casi il meccanismo è stato persino inconsapevole: ma insieme ai “populismi” è entrata nel mirino di queste improvvisate “guide del popolo ignorante” l’intera società italiana. Una rappresentazione in bianco e nero, le forze del bene contro gli imperi del male, che ha preso di mira tutte le istanze provenienti dal basso, i giovani studenti turbati dai massacri in Palestina, le perplessità di molti davanti allo schizzare verso l’alto dei costi dell’energia, lo stesso operare di movimenti religiosi e non a sostegno del disarmo e di una ricomposizione civile dei conflitti. Un grande evento come Arena di Pace 2024 a Verona è passato sotto silenzio. Non si è aperta alcuna vera discussione sul rispetto dell’articolo 11 della Costituzione anche quando è stato adombrato l’uso diretto delle armi italiani sul territorio russo. Il ripudio della guerra dove finisce? Spetta ai media interpretare o meglio cancellare di fatto gli articoli della nostra Costituzione?

Il tema si intreccia con quello della “scomparsa” dal dibattito pubblico di parole come diplomazia, composizione pacifica dei conflitti, compromesso, trattativa. Qualsiasi forma di dialogo è stata di fatto presentata come una resa, mentre così non è. Basterebbe invitare degli storici (veri) nei talk televisivi al posto di improvvisati esperti di geopolitica per dare tutto un altro contesto e respiro agli eventi. Insomma c’è veramente bisogno intorno a queste questioni, ora che i movimenti per la pace stanno rialzando la testa, di rialzare anche lo sguardo. Riprendere l’iniziativa pure sul piano concettuale disegnando una sfera pubblica che sia all’altezza della situazione. Ci sono due rischi: che (mentre il governo di destra destra punta a ridurre la libertà di espressione) precipiti pure la situazione internazionale con un coinvolgimento crescente del nostro paese e che si registri in parallelo l’atroce beffa di vedere “personalità autoritarie” occupare “lo spazio pubblico della diplomazia”. E invece abbiamo bisogno insieme di pensiero critico, giustizia sociale e speranza.


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