Se questa è una società

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Un ferroviere accoltellato a Genova, coltelli facili a scuola, scioperi forsennati in ogni settore, più del 50 per cento dei cittadini che restano a casa qualunque sia l’elezione e la tragica sensazione che la politica, ormai, non esista più.

Sembra, infatti, che quel processo di “spoliticizzazione” denunciato da Pasolini oltre mezzo secolo fa abbia raggiunto l’apice, in una società che, con ogni evidenza, non si tiene più.

Non è un Paese civile quello in cui non esiste alcun rispetto, in cui nemmeno il luogo in cui si dovrebbe imparare il futuro, cioè la scuola, rischia di diventare un santuario della violenza, in cui bisogna cominciare ad aver paura di uscire di casa, e non certo per colpa dei migranti, in cui cova sotto la cenere una rabbia che si sta trasformando in furia e nel quale non esistono più luoghi di incontro e di inclusione.

In questa Italia stanca e malata accadono episodi emblematici. Esce, ad esempio, un bel film di Andrea Segre su Berlinguer e ottiene un notevole consenso di pubblico e di critica; contemporaneamente, esce una discreta serie televisiva su Max Pezzali e gli 883, diretta da Sydney Sibilia, e va a sua volta benissimo.

Cosa ci dicono, dunque, due narrazioni così diverse ma accomunate dal favore degli spettatori?

Ci dicono che sia la consacrazione della politica, narrata per giunta nel decennio in cui rappresentava tutto, sia la musica disimpegnata e leggera, nel contesto della provincia italiana a cavallo fra gli Ottanta e i Novanta, quando la politica non solo non era più tutto ma non era quasi più nulla, all’apice del riflusso e dell’individualismo thatcheriano, evocano nella gente un senso di profonda nostalgia.

Due narrazioni opposte, dunque, ottengono entrambe un notevole apprezzamento per via della bravura degli attori e delle attrici ma, più che mai, perché ci pongono di fronte alla bellezza di un tempo in cui ancora ci si credeva, si sognava, si sperava, ci si riuniva: che fosse in una sezione per parlare del compromesso storico, magari stigmatizzandolo, o in una taverna per fare musica, in una delle fasi più floride per quanto concerne il panorama internazionale, non fa differenza. E il bello è che questo genere di racconti piacciono sia a chi c’era e rievoca i giorni della propria gioventù sia, diremmo soprattutto, ai giovani che vivono in questo eterno presente, fatto di tristezza, sconfitte, mancanza di prospettive, perdita di senso, smarrimento collettivo, morte della politica, scomparsa della musica e mancanza assoluta di passioni, individuali o collettive che siano.

A tal proposito, un altro evento dovrebbe indurci a riflettere. Si sono celebrati, difatti, i cento anni dalla nascita del maestro Alberto Manzi: un personaggio iconico della televisione italiana. Ebbene, in pochi hanno posto l’accento sulle angherie che quest’uomo dovette subire quand’era in servizio, fra continui richiami e la costante messa in discussione dei suoi metodi. “Fa quel che può, quel che non può non fa” scriveva Manzi sulle pagelle dei suoi alunni, rifiutando la logica perversa del voto in una stagione in cui la pedagogia montessoriana era ancora vista con sospetto, in particolare dalle frange più conservatrici della società.

Eppure, fu proprio a questo rivoluzionario che la RAI del democristiano Bernabei affidò il progetto di alfabetizzare il Paese. Se n’è fatto il santino, come spesso accade in questa fase, ma non si è detta la verità sul suo conto. Il maestro Manzi venne scelto proprio perché rompeva gli schemi, pertanto era l’unico in grado di compiere il miracolo di entrare nelle case di chiunque e prendere per mano gli ultimi, i deboli, i disperati, coloro che non avevano potuto studiare, le vecchiette che andavano a ritirare la pensione firmando con la croce e tanti poveri cristi che, grazie alle sue lezioni, divennero pienamente cittadini. Rendere i sudditi cittadini: questa era la missione della RAI pedagogica di allora, dei governi che vennero dopo lo sciagurato esecutivo guidato da Tambroni, del centro-sinistra di Moro e Nenni. Questo è ciò che in pochi hanno ricordato, non riconoscendo a Manzi e alla dirigenza RAI dell’epoca il ruolo storico e sociale che, invece, hanno avuto e che il servizio pubblico, ahinoi, da tempo non esercita più.

Concludiamo, infine, rendendo omaggio a una straordinaria attrice come Claudia Pandolfi, che di recente ha interpretato il ruolo della madre del ragazzo che nel 2012 si suicidò per via degli atti di bullismo che subiva ad opera dei compagni di scuola a causa del suo orientamento sessuale, reso esplicito dalla passione per un paio di pantaloni rosa.

Ebbene, che Claudia Pandolfi abbia interpretato da par suo un personaggio tutt’altro che semplice, ed emotivamente fortissimo, non ci sorprende. Che il film sia stato accolto dai cori di scherno di un gruppo di ragazzi, evidentemente bisognosi di educazione civica e all’affettività, invece sì, oltre ad addolorarci profondamente.

Sono questi i sintomi che ci inducono a ragionare su cosa siamo diventati, sul livello di degrado che ci caratterizza, sulla nostra discesa agli inferi. Ci domandiamo se questa sia ancora una società, se sia rimasto qualcosa, se siamo destinati a diventare un insieme di monadi in guerra fra loro o possiamo ancora sperare di essere una comunità in cammino.

E in mezzo a tante domande senza risposta, vediamo venir meno i sogni e gli ideali che hanno caratterizzato la nostra gioventù, quando avevamo una sezione del PCI in cui indignarci per il golpe cileno, un motorino per attraversare la campagna mentre ci sorgevano in testa canzoni destinate a segnare una generazione, un circolo ARCI nel quale immaginare di poter cambiare il mondo, una piazza in cui gridare contro la globalizzazione disumana o un locale messo a disposizione dall’A.N.P.I. in cui organizzare una manifestazione contro le pessime riforme con cui, da oltre vent’anni, viene demolito il nostro sistema scolastico.

Dovremmo chiedere scusa ai ventenni di oggi, che di idee, di valori e di voglia di impegnarsi ne avrebbero eccome ma ai quali abbiamo lasciato a disposizione unicamente lo schermo di un cellulare per sfogarsi. O quello di un televisore o di un cinema, per commuoversi mentre qualcuno racconta loro la prima volta che ha ascoltato le parole di quel segretario o le note di quella canzone, facendo il proprio debutto nella società, in quel viaggio chiamato vita che per troppe ragazze e ragazzi di adesso rischia di finire prim’ancora di essere iniziato.

 

 


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