È un Giancarlo Caselli preoccupato quello che ci rilascia quest’intervista. Uno dei grandi vecchi della magistratura italiana, senz’altro fra i più autorevoli, protagonista di inchieste che, nel corso dei decenni, gli sono valse non poche inimicizie e ostracismi, si confronta con noi sull’attualità: dagli attacchi di esponenti della maggioranza e del governo nei confronti dei magistrati e delle magistrate che si ostinano a rispettare la Costituzione e ad applicare le leggi (a cominciare da Silvia Albano, cui ribadiamo la nostra solidarietà) ai rischi connessi a una riforma costituzionale, quella del premierato, incentrata sul principio del capo. Senza contare la delicatissima partita delle nomine alla Consulta: un organo essenziale per garantire gli equilibri fra i poteri dello Stato che rischia di perdere autorevolezza a causa dei tentativi di lottizzarla attraverso la nomina di giuristi di indubbio valore ma forse un po’ troppo contigui all’attuale esecutivo. Infine, il tema dell’astensionismo, che rischia di minare la tenuta di una democrazia di per sé fragile e oggi abbandonata da una cittadinanza stanca e sfiduciata. Un grido d’allarme, dunque. Il contributo civile di un uomo che ha dedicato la vita alla difesa della Costituzione e dell’essenza del diritto.
La magistratura sembra essere considerata dall’attuale governo non un potere dello Stato, rigorosamente indipendente, ma un avversario politico che agisce con il preciso intento di fare opposizione. Come si è arrivati a questo punto? Vede dei rischi per la democrazia?
È evidente che l’attuale governo consideri come avversario politico non tutta la magistratura, ma tutti i magistrati che prendono decisioni scomode, cioè in contrasto con certi interessi, valutate secondo il criterio non della correttezza e del rigore ma dell’utilità o convenienza per una certa area o cordata. Per di più appioppando allo sventurato magistrato preso di mira una etichetta fasulla di appartenenza politica (toga rossa va alla grande), comunque utile per svalutarne il lavoro e i risultati. Del pari evidenti sono i rischi per la democrazia. Infatti , se è vero che in democrazia la sovranità appartiene al popolo (per cui chi ha più consensi, chi ha la maggioranza, ha il diritto-dovere di operare le scelte politiche che vuole), è altrettanto vero che ogni potere democratico incontra – non può non incontrare – dei limiti prestabiliti. Questa necessità di limiti (che la nostra Costituzione stabilisce fin dal suo primo articolo: la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione) è fondamentale in democrazia. Altrimenti, come già insegnava de Toqueville, può sempre essere in agguato la tirannide della maggioranza. La vera democrazia garantisce spazi anche alle minoranze, spazi effettivi. Perché se questi spazi non sono effettivi, se la maggioranza che ha avuto più consenso si prende tutto, allora l’alternanza, che è la quintessenza, il DNA della democrazia rischia di essere ridotta a un simulacro. L’effettività di tali spazi dipende da molteplici fattori, fra i quali l’effettività del controllo di legalità, che presuppone appunto una magistratura indipendente.
Lei ha attraversato da protagonista quasi mezzo secolo di magistratura, occupandosi di alcune delle più grandi tragedie del nostro Paese, dalla mafia al terrorismo. Spesso si dice che i magistrati assassinati erano stati, in precedenza, abbandonati da quello stesso Stato che avrebbe dovuto difenderli. La giudice Silvia Albano ha ricevuto minacce esplicite per via delle sue prese di posizione. Vede qualche rischio per le figure che sono finite nel mirino di più di un esponente dell’attuale maggioranza?
I rischi, purtroppo, in casi del genere ci sono, senza bisogno di scomodare l’intervista che il generale – prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa rilasciò a Giorgio Bocca nell’agosto dell’82, pochi giorni prima di essere ucciso dalla mafia nella strage di via Carini. Dalla Chiesa sostiene di aver capito che si viene colpiti quando in capo a un soggetto si verifica la “combinazione fatale” tra l’essere diventato troppo pericoloso e l’essere rimasto isolato. Queste parole non valgono direttamente per il caso di Silvia Albano, ma possono aiutare a inquadrarlo. Nel senso che le polemiche ripetute ossessivamente contro i magistrati, che stanno facendo soltanto il loro dovere, rischiano di scatenare le reazioni inconsulte di qualche “cane sciolto”, per cui i magistrati attaccati occorre proteggerli adeguatamente dopo averli esposti al pericolo: un corto circuito degno del peggior teatro dell’assurdo.
L’altra grande battaglia riguarda la Costituzione. Quali sono i rischi connessi al premierato? È vero che produrrebbe uno sbilanciamento del sistema di pesi e contrappesi, cardine di ogni democrazia?
Innanzitutto, va detto che occorre fare una valutazione d’insieme delle tre riforme sul tappeto: premierato , autonomia differenziata e modifiche al sistema giustizia, con particolare riferimento alla separazione delle carriere fra PM e giudici . Se tutte e tre andranno in porto, avremo un cambiamento del nostro ordinamento radicale e in peggio. Quanto al premierato, mi pare convincente il ragionamento del presidente Giovanni Maria Flick, secondo cui il progetto prevede una delegittimazione del Capo dello Stato e un rafforzamento del Presidente del Consiglio. Il primo sarebbe ridotto a un ruolo formale, mentre la grande fiducia che oggi riscuote presso l’opinione pubblica, come garante dell’effettività e funzionalità della Costituzione, spinge in una direzione tutt’affatto contraria.
C’è, poi, il tema della Corte costituzionale, su cui anche l’ex presidente Amato ha lanciato un allarme. Quali rischi comporterebbe una Consulta delegittimata o eccessivamente sottoposta a interessi partitici?
La Consulta è organo di garanzia e di controllo. In quanto tale non può essere “costruita” a immagine e somiglianza di una sola parte politica. Per contro, Giorgia Meloni, essendo scaduto nel novembre del ’23 un giudice costituzionale, ha congelato la nomina del sostituto per quasi un anno . Sbloccandola soltanto nel momento in cui alcuni parlamentari – cambiando casacca – sono passati dalla sua parte, facendole sperare di poter avere la maggioranza necessaria per nominare il “suo” giudice. E ha proposto il suo consigliere giuridico di Palazzo Chigi, cioè un soggetto che di mestiere scrive le leggi, quelle che magari dovrà poi giudicare come componente della Consulta. Molti osservatori hanno denunziato un possibile conflitto di interessi, ma la preoccupazione non ha neppure sfiorato la premier, incurante del fatto che intestarsi come componente della Corte un soggetto che ha lavorato nel tuo ufficio, instaurando con te un rapporto di fiducia, significa indebolire l’argine contro l’insofferenza al pluralismo e ai diritti delle minoranze, anticamera dell’autoritarismo. La manovra, portata avanti con decisione dalla Presidente del Consiglio, questa volta non ha funzionato. Ma tra non molto si dovrà nominare un “pacchetto” di giudici costituzionali. Il fatto stesso che si richieda una maggioranza qualificata significa che si deve cercare un accordo tra le varie forze politiche. È vero che il caso Marini non è di buon auspicio, ma io spero che la nostra democrazia si salvi da nuovi trasformismi parlamentari e dai pretoriani che volessero escogitare ancora qualcosa.
Le persone non votano più. Il tasso di astensionismo ha superato ormai il 50 per cento. Cosa comporta questa crescente disaffezione della cittadinanza nei confronti della cosa pubblica?
Significa che di fatto l’elezione del Parlamento, e quindi del governo, oggi avviene ad opera della minoranza del corpo elettorale. Un motivo in più perché chiunque venga eletto non cerchi di imporre una svolta autoritaria dell’ordinamento, magari confidando proprio nell’indifferenza della cittadinanza. Temo invece che la tentazione in qualcuno possa essere forte.
Si parla, dai tempi di Tangentopoli, di uno scontro fra politica e magistratura. Qual è la sua opinione in merito? Come si può ricostruire un contesto di fiducia e rispetto reciproco fra i due settori, al fine di evitare una contrapposizione che nuoce a entrambi?
La sfiducia nella giustizia affonda le radici in una storia nazionale di prevaricazioni, scontri e divisioni che hanno ostacolato il formarsi, sulla giurisdizione (come su altre istituzioni), di un comune sentire dei cittadini. Qualcosa peraltro è, nel tempo, cambiato e la diffidenza si è venuta intrecciando o alternando con un intermittente sentimento di fiducia nella giustizia e nei giudici (talora persino sopra misura, come nei primi anni di Tangentopoli e Mafiopoli, in cui ha assunto toni da tifo calcistico…). È accaduto però, nell’arco di due o tre decenni, un capovolgimento degli atteggiamenti delle forze politiche e sociali in materia di giustizia. Schematizzando, fino ai primi anni ’70 prevaleva, a sinistra, l’ostilità, supportata da controinchieste e manuali «di autodifesa», nei confronti di pubblici ministeri e giudici, mentre, a destra, era d’obbligo esibire patenti di paladini della giustizia e slogan all’insegna non solo dell’ordine ma anche della «legge». In meno di trent’anni tutto è cambiato e, mentre la destra ha trovato uno dei principali collanti nel tentativo di paralizzare la macchina giudiziaria e di controllare la giurisdizione, i temi della giustizia sono tra i pochi che ( spesso con sorde resistenze nell’establishment) mobilitano la piazza progressista. Il cosiddetto scontro si colloca in un quadro diverso. Ci sono problemi che la politica, trasversalmente, non sa o non vuole risolvere (responsabilità per le stragi, soprattutto di destra, evasione fiscale, sicurezza sul lavoro, sicurezza agroalimentare, fine vita.) e perciò li delega alla magistratura. Ma con un’asticella da non superare posta a protezione di certi interessi “forti”: Se la magistratura supera quest’asticella, i titolari di quegli interessi reagiscono, accusando la magistratura di invasione di campo se non peggio . La magistratura ovviamente si difende, allegando di aver fatto semplicemente il suo dovere per delega della politica. Un cane che si morde la coda. Per risolvere la situazione ci vorrebbe un passo di lato . Ma non può essere la magistratura a farlo, perché l’obbligatorietà dell’azione penale e quant’altro glielo impedisce. Tocca quindi alla politica rispettare la magistratura, mettendo fine ad una contrapposizione che effettivamente nuoce a entrambi ma soprattutto al Paese. Senza ricacciare i PM in un angolo (come da varie parti si vorrebbe fare con la separazione delle carriere), intaccando in radice l’indipendenza della magistratura stessa.
Il motto del Washington Post recita: “La democrazia muore nell’oscurità”. La vicenda politica e giudiziaria del nostro Paese è piena di misteri e segreti indicibili. È lecito affermare che questa mancanza di trasparenza sia alla base di molti dei mali che affliggono la politica contemporanea, favorendo la frattura fra essa e una società sempre più sfiduciata?
Si possono ripetere pari pari le considerazioni appena svolte, perché uno dei fattori da cui dipende l’effettività degli spazi che in democrazia devono essere lasciati alla minoranza è il controllo sociale, che presuppone un’informazione libera e indipendente che purtroppo nel nostro Paese non è la regola prevalente. Quanto al motto del Washington Post, è ahinoi secondo logica e buon senso, perciò inevitabile, che i misteri e segreti indicibili (anche a causa dei limiti dell’informazione) siano una concausa dei mali che affliggono la nostra politica e della sfiducia della società nei suoi confronti.